Gli ebrei arabi possono fungereda ponte per una coesistenza con i palestinesi
In questi giorni volge al termine la settimana di Pesach, la festività ebraica che celebra l’uscita degli ebrei dall’Egitto, come si narra nel libro della Haggadà che le famiglie leggono ogni anno la sera del sèder consumando il pane azzimo (non lievitato) e le erbe amare in ricordo della schiavitù. Quest’anno, tuttavia, dopo duecento giorni di guerra a Gaza, il mancato ritorno degli ostaggi, migliaia di sfollati, l’incombenza della minaccia iraniana e la violenza crescente delle manifestazioni contro Israele negli Stati Uniti e in Europa, quella di celebrare la liberazione è stata una sfida emotivamente paradossale. Non solo sembra sempre più difficile distinguere tra antisemitismo e critiche al governo israeliano, ma ovunque si va rafforzando la narrativa che contrappone irrimediabilmente israeliani e palestinesi quali nemici, relegando i primi a baluardo dell’Occidente in Medioriente. Adottando lo sguardo di studiosi più attenti e sensibili, tuttavia, vediamo che questa non è affatto l’unica chiave di lettura possibile.
Tornando proprio al racconto di Pesach, ad esempio, vediamo come il libro dell’Esodo, secondo del Pentateuco, presenti Mosè, il leader del popolo ebraico, come prodotto della cultura egiziana, allevato presso la corte dello stesso faraone dopo essere stato salvato dalle acque del Nilo. Per tale motivo, nel suo saggio Freud e il non europeo, che commenta a sua volta il testo freudiano L’uomo Mosé e la religione monoteistica, Edward Said pone l’accento sull’identità egiziana di Mosè, da intendersi quindi come ebreo e non ebreo allo stesso tempo, come qualcuno che agisce all’interno e all’esterno della collettività ebraica. Inoltre, anche chi si rifiuta di definire Mosè un egiziano, non può negare che egli non fosse europeo. Non si può dunque comprendere l’identità ebraica escludendone la componente araba. Secondo Said, Freud avrebbe rivelato che le radici dell’identità ebraica non nascono dal nulla, bensì ingloberebbero anche altre identità, aprendo così la via al generale riconoscimento che l’identità risulta dall’inclusione di tutte le componenti estranee al sé, concetto noto alla psicoanalisi. A fronte di ciò, nel suo libro Strade che divergono, Judith Butler ha sottolineato che per Said il fatto che Mosè l’egiziano sia il fondatore del popolo ebraico sfida l’egemonia ashkenazita nella definizione dell’ebraicità. Le parole di Butler indicano che la narrativa nazionale sionista, basata su fonti europee, dovrebbe includere i sefarditi e i mizrahìm, ovvero gli ebrei provenienti dai paesi arabi, i quali ultimi detengono il potenziale di fungere da ponte per una coesistenza con «l’altro palestinese».
Numerose sono inoltre le testimonianze di integrazione in un comune spazio semitico e di rapporti di vicinanza, coesistenza e collaborazione tra ebrei, orientali e sefarditi, e arabi palestinesi, sia nel corso dell’Impero Ottomano (Avi-Ram Tzoreff) che del Mandato Britannico (Avigail Jacobson, Moshe Naor). Successivamente, come è noto, a partire dalla sua fondazione nel 1948, sono giunte in Israele centinaia di migliaia di ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, alcuni perché costretti dal conflitto arabo-israeliano ad abbandonare i paesi d’origine, altri perché animati dal sionismo e desiderosi di partecipare alla rinascita nazionale ebraica. Come ha sottolineato Ella Shohat, che ha applicato la teoria del postcolonialismo di Said ai rapporti tra ashkenaziti e mizrahìm in Israele, all’arrivo in Israele quei gruppi sono stati etichettati indistintamente come «provenienti dai paesi orientali» – gente tradizionale e apparentemente «bisognosa di miglioramento» – e hanno dovuto affrontare un processo di sradicamento dal loro precedente ambiente sociale e integrarsi nella società israeliana adottando il modello dominante d’identità nazionale proposto, che Shohat ha definito «euro-israeliano» oppure «memoria ashkenazita unidimensionale». Il modello, nato nel sionismo est-europeo e legato alla figura dell’ebreo nuovo, al mito del pioniere vagheggiato dagli ebrei di origine ashkenazita e influenzato dal nazionalismo europeo ottocentesco, ha portato a emarginare gli ebrei dei paesi arabi, a maggior ragione quando i governi israeliani hanno deciso di insediarli prima nei campi profughi e poi nelle città di sviluppo alla periferia del paese.
Oltre a Shohat, nel mondo accademico sono molti gli studiosi che ricorrono da anni al termine «ebrei arabi» per descrivere l’identità degli ebrei che provengono dai paesi arabi o che sono stati influenzati dalla cultura arabo-islamica. Secondo Yehuda Shenhav, l’uso del termine ebrei arabi non identifica necessariamente la percezione che questi ebrei hanno della propria identità, ma piuttosto sfida «il pensiero nazionale coloniale e binario all’interno del quale viene organizzata l’identità degli ebrei provenienti dai paesi islamici». Il contesto geopolitico ha creato la formula arabismo-mediterraneismo-islam contrapponendola all’altra di europeismo-occidentalismo-ebraismo. Tuttavia esistono prove di affinità culturali e radici condivise tra ebrei e arabi nel corso di tutta la storia, che si esprimono, tra l’altro, nella lingua giudeo-araba, parlata e scritta dagli ebrei e influenzata dalle lingue e dai dialetti degli arabi locali. Said, Butler e Shohat criticano la dicotomia orientalista ebrei/arabi e propongono di superarne il messaggio implicito, ovvero la supremazia europea sui non europei o quella degli ebrei ashkenaziti sui sefarditi, che nasce dalla narrativa israeliana dominante di tipo nazionalista e sionista. Ancor più radicale in questo senso è la voce di Ariella Aïsha Azoulay, docente di letteratura comparata alla Brown e autrice di Potential History: Unlearning Imperialism (Verso, 2019), la quale si definisce provocatoriamente «ebrea palestinese», auspicando un’identità alternativa a quella israeliana che ritiene essere il prodotto dell’imperialismo europeo e statunitense.
In un momento storico complesso come quello che stiamo vivendo è utile tenere conto dell’esistenza di tali letture alternative del contesto israelo-palestinese. Anche senza bisogno di concordare interamente con queste tesi, infatti, gettare luce sulle testimonianze degli storici legami intellettuali tra ebrei orientali e cultura arabo-islamica, lentamente adombrati e silenziati, oggi è di fondamentale importanza per traghettarci fuori dalle semplificazioni e dai luoghi comuni del moderno discorso riduzionista delle politiche identitarie e dell’appartenenza culturale e nazionale e, soprattutto, per immaginari scenari alternativi. In futuro, uscire dal discorso eurocentrico, fondato sulla dicotomia tra cultura arabo-islamica ed ebraico-cristiana, potrà dare un grande contributo all’integrazione e alla normalizzazione del popolo ebraico israeliano in Medioriente.