L’assenza di Paul Auster

by Claudia

Addio al grande scrittore americano

C’è poco da dire, ciò che fa di uno scrittore un grande scrittore è lo stile, o meglio il rapporto unico tra la forma e il contenuto dei suoi libri. Ed è questo preciso motivo che ogni volta ci fa rimanere ammirati di fronte a un romanzo di Paul Auster. Viene da sospettare che questo stile, un miscuglio miracoloso di disincanto e partecipazione, provenisse a Auster, morto martedì scorso nella sua casa di Brooklin a 77 anni, da una confidenza precoce e persistente con la morte o almeno con la tragedia. Nella sua scrittura, anche laddove si tratta di libri di finzione, non si avverte mai la finzione, tutto scorre incredibilmente naturale: prendete la sequenza iniziale dell’ultimo romanzo, Baumgartner, e sentirete un flusso lieve della prosa che conduce nella quotidianità stralunata e divagante del protagonista, un vecchio professore di filosofia vedovo da dieci anni ma non ancora abbastanza distante dal dolore di quell’assenza. È un libro intimo e bellissimo, in cui Auster riflette su ciò che resta dopo la morte e sulla memoria che ci lega ai defunti: tra questi la moglie Anna che appare in sogno al marito per dirgli di liberarla dalla sua nostalgia. E così che il protagonista si libera a sua volta imbastendo una nuova relazione sentimentale piena di incognite (e di nuovo dolore).  

L’assenza è uno dei motivi ricorrenti nei libri di Auster. Nato nel New Jersey a Newark, la stessa città di Philip Roth, nel 1947, da genitori ebrei di origine est-europea, la prima assenza che vive è quella che sperimenta a otto anni, quando si trova di fronte al suo beniamino del baseball, Willie Mays, gli chiede l’autografo ma non ha con sé una penna e dopo un attimo di imbarazzo e di disperazione deve rinunciare (è lì che diventò scrittore, disse); la seconda è quella della sorellina, che per gravi problemi piscologici sarà costretta a un lungo ricovero lontano da casa; la terza è quella della famiglia, che ben presto va in frantumi per la separazione traumatica dei genitori. Lo choc più profondo continuamente evocato dallo scrittore avviene a 14 anni in un campus estivo, quando durante un’escursione Paul assiste alla morte di un ragazzino folgorato da un fulmine. Altre assenze lo assedieranno, fino a quella del figlio David, morto per overdose a 44 anni dopo essere stato accusato di essere responsabile della morte della figlia, che a dieci mesi aveva ingerito una dose di fentanyl e eroina mentre lui dormiva al suo fianco. L’ultima assenza fu quella di Paul da Paul quando lo scrittore, saggista, poeta, sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematografico (tra i «suoi» film, si ricorderà almeno Smoke) scoprì di essere malato di un cancro ai polmoni. 

È stato lo stesso Auster a imporre, in un libro intervista sulla sua opera, la separazione netta tra i libri-memoir, scopertamente autobiografici, e quelli di finzione. Ma non mancano anche in questi ultimi le inserzioni di esperienze che riguardano in prima persona l’autore e che nella narrazione diventano parte integrante della fiction. Sicché l’opera di Auster, nel suo complesso, si trasforma in un organismo ambiguo e sempre diverso, capace di giocare su più piani in modo anche spericolato (giustamente o no, il nome di Auster viene associato al postmodernismo, e per questo avvicinato a quelli di Pynchon e di DeLillo, suoi maestri e amici). Ma intanto, dopo l’esordio in poesia, il primo romanzo, L’invenzione della solitudine (1982), si colloca nel solco della letteratura sul padre, altra figura dell’assenza («era assente già prima di morire, e le persone più vicine a lui avevano imparato da un pezzo a accettarne l’assenza, considerandola il tratto più essenziale del suo carattere»). È il «ritratto di un uomo invisibile» ricostruito attraverso ciò che ne rimane, oggetti e carte, da cui emerge la scoperta di un antico delitto consumato in famiglia.  

Nello stesso filone autobiografico si inserisce, con altri titoli non trascurabili, anche Sbarcare il lunario (1997), centrato sulle vicende del futuro artista da bambino e poi da giovane, quando finisce su una petroliera, fa il centralinista nella sede parigina del «New York Times» e il ghost writer per una ricca americana in Messico, sempre alle prese con la necessità di racimolare un po’ di denaro per sopravvivere. La «cronaca di un iniziale fallimento» per chi è stato scelto dalla letteratura: l’idea di Auster è che non sei tu a scegliere di diventare uno scrittore, ma il destino o il caso. Ed è il caso un altro dei motivi forti ricorrenti nella sua opera, soprattutto in quella di finzione, corpus unitario (una ventina di romanzi) e insieme divagante, con riferimenti interni e altrettante traiettorie centrifughe più sperimentali in una mescolanza continua di realismo, reportage, fiaba, distopia, mito, detective story, Bildungsroman, metanarrazione, saggismo via via sociologico, cinematografico, letterario, politico: mai dimenticare che Auster, autore tutt’altro che ideologico, non ha esitato ad esporsi pubblicamente a favore dei democratici e contro i repubblicanti (in particolare manifestando la sua ostilità verso Trump).  

Rimane almeno lo spazio per soffermarsi brevemente sulla Trilogia di New York, l’opera che ha consacrato lo scrittore sul piano internazionale (in Italia tutti i suoi titoli si trovano pubblicati da Einaudi, dopo un primo passaggio in Guanda con due libri straordinari: Musica del caso e Leviatano). La Trilogia è composta da tre storie (Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa) uscite separatamente tra il 1985 e il 1987 e poi raccolte in un unico volume: basta dire che sono vicende di detective e vicende di fantasmi dalla eccezionale originalità combinatoria, vicende vere e vicende di altissima invenzione, tutte concentrate in una New York surreale e allucinata. Storie di follia, di mistero, di sparizione (di nuovo l’assenza!), di occasioni mancate, di destini imprevedibili e clamorosi, di forze occulte, di scambi di identità. Tutti motivi inquietanti che prefigurano l’avvento di una società immateriale, quella del web, cui Auster avrebbe sempre pubblicamente dichiarato la propria radicale e allarmata ostilità.  

 

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