Meno fatica e più tempo libero

Tra gli economisti, ma anche tra chi si occupa di sociologia o di cultura, c’è chi sottolinea lo sgretolarsi a poco a poco dell’etica del lavoro, di quella lasciata in Svizzera dal protestantesimo. Qualcuno fa risalire l’accentuarsi di questa evoluzione al periodo della pandemia da Coronavirus, che in parecchi casi ha spinto verso l’organizzazione del lavoro da casa – modalità la quale favorisce la conciliazione vita-lavoro ma pone anche nuove problematiche – e verso l’idea di godere maggiormente della singola giornata. Ma c’è anche chi ha scoperto, o riscoperto, i piaceri del «dolce far niente» e oggi porta parte di questo piacere (o dispiacere) tornando sul posto di lavoro. Si può forse far risalire a queste situazioni la tendenza in atto a chiedere più giorni di vacanza o ad approfittare fino in fondo dei giorni di libero per varie attività.

Su un altro fronte, in diversi sono giunti a considerare seriamente – magari approfittando delle molte possibilità offerte dall’informatica – un maggior uso del «lavoro a domicilio». Al punto che certe aziende, o anche certi enti pubblici, hanno dovuto limitare la concessione dei necessari permessi. Alcune di queste tendenze sono state riassunte in un articolo della «NZZ am Sonntag» del 14 aprile scorso, poi completate da considerazioni sul ruolo della scuola, in particolare a Zurigo, di cui non ci occupiamo in questa sede. La messa in pratica del desiderio di «emanciparsi» dal lavoro è ancora limitata in un Paese abituato a rispettare gli impegni presi e gli orari imposti. Tuttavia, su un piano globale, si possono già verificare tendenze precise: per esempio il fatto che circa il 40% dei lavoratori svizzeri chiedano il pensionamento prima dell’età ufficiale di ritiro dal lavoro. Oppure che sono sempre più numerosi coloro che – a partire dai 55 anni d’età – chiedono una riduzione dei tempi di lavoro. Sintomi di un contrasto evidente con l’esigenza contraria, vuoi per un aumento della durata di vita, vuoi per una necessità di aumento dell’età di pensionamento, che il finanziamento di opere previdenziali come l’AVS sta già oggi chiedendo.

D’altro canto, sia il livello salariale generale sia un mercato del lavoro piuttosto teso, con piena occupazione e mancanza di personale specializzato, lo possono permettere con il risultato che oggi, rispetto ai dati del 2010, il lavoratore in Svizzera lavora quattordici giorni di meno all’anno. In qualche caso si è anche potuto costatare come il calcolo dello stipendio da percepire tenga conto anche dei possibili aiuti pubblici in vari ambiti, per esempio per i premi di cassa malati. Un’evoluzione che potrebbe costringere a lavorare a pieno tempo solo chi ha compiti dirigenziali o chi ha un salario troppo basso. Secondo alcuni commentatori ci si sta quindi avviando verso una mentalità della ricerca del massimo tempo libero possibile e del «prendi tutto quello che puoi» al di fuori del salario. Una mentalità nuova per la Svizzera (soprattutto quella svizzero-tedesca e appunto protestante) che potrebbe mettere in discussione le basi del modello sociale attuale.

Modello che ha potuto contare su un benessere generalizzato, ovviamente favorito da un’economia efficiente e dinamica, nonché da un sensibile aumento della produttività del lavoro. Ma le analisi dovrebbero forse anche considerare che gli stessi progressi delle tecnologie utilizzate richiedono magari meno presenza sul posto di lavoro. E non è escluso a priori che la tendenza possa continuare e perfino accentuarsi, proprio grazie al più recente progresso tecnico, senza il quale si rischierebbe però di tornare indietro di un paio di secoli. Ma anche questa evoluzione ha precisi limiti e costi elevati, nonché un crescente ricorso a forza lavoro da importare, soprattutto per i lavori che gli svizzeri non vogliono fare. Ma non solo, come rivela il crescente impiego di mano d’opera estera in lavori altamente specializzati e anche nel settore terziario. Per ora stiamo però anche utilizzando le ricchezze prodotte dai nostri predecessori. Infatti il 40% degli svizzeri gode di un’eredità, la cui somma raggiunge i 95 miliardi di franchi, percepita anche in età abbastanza giovane. Le statistiche dicono che quasi la metà della ricchezza globale attuale è dovuta a eredità, che solitamente è però mal distribuita: i già ricchi ereditano di più dei meno ricchi. Ma questa è forse l’unica eccezione (fino a quando?) rispetto a un generale appiattimento di una società che vuole sopprimere tutte le diversità, comprese alcune che si direbbero create ad arte.

E gli svizzeri sembrano non preoccuparsi di un mondo in equilibrio precario, ma che sta profondamente cambiando. Lo fanno con un aumento talora sconsiderato dei consumi di ogni tipo e abbandonano le tradizionali virtù di previdenza e risparmio. Ma questo è dovuto anche ai molti costi dello Stato tramite l’AVS, la cassa pensione e il terzo pilastro, che lasciano poca cosa al risparmio privato, che dal 2020 è in netta diminuzione. E anche il principio sano secondo cui prima di spendere bisogna avere è stato praticamente rovesciato. L’esempio classico è quello dell’automobile: il 49% è finanziato da terzi (leasing) nella Svizzera tedesca, ma in Romandia siamo al 66% e in Ticino perfino al 79%. Ma non si tratta solo dell’auto e la tendenza comincia a essere quella di pagare un debito con un altro debito. Forse perché la casa propria è ormai diventata un sogno irraggiungibile e il maggior tempo libero a disposizione chiede pure finanziamenti?

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