Taiwan di fronte ai pericoli, naturali e non

by Claudia

I sismi sono frequenti sull’isola nel Pacifico che si è egregiamente attrezzata dopo la tragedia del 1999.Ma la minaccia principale resta la Repubblica popolare cinese che la rivendica come proprio territorio

Sull’isola di Taiwan la terra continua a tremare. Secondo gli esperti si tratta di scosse di assestamento, alcune anche molto forti, che potrebbero proseguire per molti mesi, fino a un anno. Il sisma più forte, che ha dato il via allo sciame, è stato quello del 3 aprile scorso, con epicentro nella contea di Hualien. Quel giorno, poco prima delle otto di mattina, una scossa di magnitudo 7,4 ha fatto tremare le case e i palazzi, facendo crollare almeno 28 edifici e danneggiandone 870. Alla fine le autorità hanno dichiarato morte 17 persone. Nonostante le vittime e lo shock iniziale per la popolazione, il disastro naturale è servito però per fare una valutazione di tutto quello che è cambiato a Taiwan dopo l’ultimo terremoto di simile intensità, quello del 1999 che aveva avuto come epicentro la contea di Nantou, proprio al centro dell’isola.

Allora i morti erano stati 2’415, e interi villaggi erano stati rasi al suolo. Il Governo di Taipei decise, dopo quella tragedia, di rivoluzionare il suo piano antisismico, che prima era pressoché inesistente. Si mise in atto da subito un piano regolatore per rendere gli edifici sicuri, e si cominciò a studiare una nuova catena di comando più efficace per portare aiuto alla popolazione, nuovi protocolli, oltre a un sistema rinnovato di addestramento delle squadre di soccorso e salvataggio urbane – oggi, quelle taiwanesi, sono tra le più richieste al mondo. Venticinque anni fa è iniziata anche una campagna intensiva di comunicazione alla popolazione: educazione ed esercitazioni, che secondo i protocolli già adottati dal Giappone servono ad automatizzare la reazione dei cittadini, che devono essere pronti anche al peggio. La tecnologia poi è servita a massimizzare lo studio e la capacità del Governo centrale di capire dove e quando intervenire, anche in maniera preventiva. Anche adesso, che lo sciame sismico continua a farsi sentire anche nella capitale Taipei, la popolazione subisce lo stress delle periodiche evacuazioni (come durante l’ultima scossa forte, di magnitudo 6,3) ma convive con il rischio minimizzando le criticità e attenendosi ai protocolli.

Del resto, per l’isola di Taiwan, che la Repubblica popolare cinese rivendica come proprio territorio e non ha mai escluso l’uso della forza per annetterla, il sistema istituzionale di difesa della popolazione è parte della propria identità democratica. Un aspetto importante della frequente contrapposizione fra Taiwan e Cina riguarda infatti il modello: Pechino sostiene che il partito unico, cioè il potere nelle mani della leadership del Partito comunista cinese, sia di fatto garanzia di protezione della popolazione. È una teoria che contribuisce all’immagine della Cina anche fuori dai confini nazionali, convincente per diversi Paesi soprattutto del sud globale. Da tempo però Taipei prova a dimostrare il contrario: il sistema democratico, anche se imperfetto, è quello che ci aiuta a cambiare le cose nel miglior modo possibile, per i cittadini ma anche nel contributo al resto del mondo. Durante la pandemia da Covid-19, mentre la Cina applicava il suo draconiano sistema della politica «zero Covid» e silenziava chi criticava la gestione dei contagi, Taiwan è stato un caso di successo e uno dei Paesi con il modello di contenimento del virus più copiato in occidente, fatto di comunicazione istituzionale, prevenzione, e poche misure di limitazione delle libertà personali. È anche per questo che l’obiettivo della leadership cinese di Xi Jinping di annettere l’isola di Taiwan funziona soltanto combinando la minaccia e la pressione militare con il lavoro diplomatico di Pechino, che da anni spinge per l’isolamento internazionale di Taipei. Perché in realtà, sull’isola, anche i più aperti alla collaborazione con la Cina non hanno più nessuna intenzione di farsi inglobare nel modello sempre più autoritario di Pechino.

Anche la tragedia del terremoto di Hualien del 3 aprile è stata usata dalla Cina per fare politica: i media statali hanno parlato del terremoto «nella provincia cinese di Taiwan», e Zhu Fenglian, portavoce dell’Ufficio cinese per gli Affari di Taiwan, aveva fatto sapere che il Governo di Pechino era «pronto a fornire assistenza per i soccorsi», in una formula tipica di quando le tragedie avvengono sul territorio cinese. Subito dopo il ministero degli Esteri della Bolivia aveva rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva «la sua solidarietà alla sorella Repubblica popolare cinese, di fronte alla perdita di vite umane e ai gravi danni materiali causati da un forte terremoto che si è verificato al largo delle coste di Taiwan». Il ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, aveva condannato la dichiarazione che seguiva «il Governo autoritario cinese nel diffondere a livello internazionale osservazioni false che sminuiscono la sovranità del nostro Paese». Il governo di Taipei ha poi rifiutato gli aiuti dalla Cina, che sono arrivati però da molti Paesi come Giappone, Corea del sud, dalla Lituania e dal Regno Unito, e naturalmente dall’America. Ma Washington non si occupa solo degli aiuti in caso di disastri naturali: di recente il Congresso americano ha approvato una legge per fornire 8 miliardi di dollari di aiuti militari a Taiwan, per difendersi da una possibile aggressione cinese.

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