L’animo inquieto della nipote acquisita di Alessandro Manzoni è ora raccontato in un ricco carteggio
Queste le impressioni di una lettrice inesperta di epistolari, ammirata dalla capacità certosina dei curatori, Aurelio Sargenti e Georges Virlogeux, di entrare nel merito dei sottintesi, delle cose alluse e delle verità velate che un carteggio adombra. In questo caso e di fronte a un personaggio così sfaccettato è stato facile farsi prendere dalla curiosità. Il personaggio in questione è Luisa Maumary Blondel d’Azeglio (qui a lato ritratta da Eliseo Sala): il crescendo rossiniano dei cognomi è di per sé un invito ad avventurarsi nella storia della tante Louise: così era definita nell’ambito della famiglia Manzoni, ambito complesso, dove le cose si fanno intricate, i grovigli infittiscono, le relazioni si complicano, quasi in opposizione al nitore della scrittura del grande romanziere.
Ma chi era costei? Luisa, nata a Milano nel 1806, è figlia di un industriale della seta di origine svizzera piovuto a Milano a incrementare la sua fortuna, e di una Blondel, la maggiore della famiglia e sorella prediletta di Henriette (prima moglie di Alessandro Manzoni). Così siamo entrati a pieno titolo nella casa di via del Morone. Ma c’è un valore aggiunto, il matrimonio della 17enne Luisa con il fratello più giovane della mamma, Henri Blondel. Una consanguineità forte, ma chi pensasse a un gioco di interessi per non disperdere i patrimoni di famiglia si sbaglierebbe: se mai ci fu una storia d’amore fu quella tra la giovanissima Louise e lo zio 28enne.
La felicità sulla Terra, Manzoni ce lo ricorda, dura poco. Sette anni di amore coniugale e Henri muore nel 1830, lasciando la moglie ancora bella, giovane e desolata. Tanti e qualificati i corteggiatori che discretamente ne rispettano il lutto, ma non per questo rinunciano a sperare; la fine dell’attesa, cinque anni dopo, sarà quanto meno sorprendente: a Klagenfurt nell’agosto del 1835 Luisa sposa Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, vedovo a sua volta, e vedovo recente, di Giulietta Manzoni, la primogenita di Alessandro e nipote (e cugina) di Luisa, che in questo modo sposa il nipote e cugino acquisito. Meriterebbe un romanzo!
I tre cognomi infine declinati raccontano la tela di ragno di una vita tessuta con un filo così ritorto! Una vita complessa. Il carteggio, circa 500 lettere (corredate da note puntualissime e indispensabili) dal 1820 fino al 1871, poco prima della morte di Luisa, racconta la storia di una donna inquieta, irretita nelle maglie di un nucleo familiare tenace e fragile: un ossimoro efficace.
Sono lettere molte belle. A cominciare dalla forma, perché anche là dove ci sono sbavature grammaticali, e ce ne sono!, è lo specchio di un tempo in cui la corrispondenza epistolare è un’arte molto praticata. Lo stile è duttile e si piega alla necessità: diritto al punto e imperativo quando si tratta di dialogare col mezzadro; un florilegio di parole, di coloriture e di finezze nel corrispondere con la famiglia e gli amici, e qui il catalogo sarebbe lungo e fitto di nomi celebri. Sembra di sentire i toni e i semitoni delle voci, i sussurri salottieri da dietro il ventaglio e le dichiarazioni ostentate di affetto, di amicizia. Di condivisione. «Povero» «pauvre» (la lingua francese abbonda in questo epistolario) sono gli aggettivi che ricorrono con più frequenza. Sinceri sempre? Certo, soprattutto quando sottendono insinuazioni critiche: si ammira e compassiona il marito paziente per rimarcare il cattivo carattere della moglie! e nella penna puntuta di Louise il gioco viene fuori agile e appena venato di malizia.
Donna inquieta: i suoi spostamenti oggi sarebbero risibili, allora denunciavano una agitazione faticosa: da Milano a Firenze, a Lucca, a Pisa, al mare, e lei, in questo vagabondare, mai del tutto a suo agio. Generosa sempre, anche con non pochi contrasti: è zia e matrigna di Rina, la figlia di primo letto del d’Azeglio, nei suoi soggiorni in Toscana ospita le due ragazze Manzoni, la fortunata Vittoria e «la pauvre» Matilde. Qui, nella regione più liberale al tempo dei primi fermenti risorgimentali e in piena passione politica, Luisa incontra Giuseppe Giusti. Il loro carteggio, che lascia un mare di dubbi sulla verità o meno di una relazione tra i due, mette in luce la personalità del poeta toscano. È un piacere correre sul filo dell’ironia e della leggerezza e profondità di scrittura e di pensiero dell’artista che di solito confiniamo nella poesia Sant’Ambrogio.
Per Luisa però è dominante la disillusione del secondo matrimonio: 31 anni di vite separate, con d’Azeglio richiamato più dalla politica che dalla moglie, e non meno distratto dalle sollecitazioni seduttive del mondo femminile di cui è attento e non neutro osservatore. La gelosia non illeggiadrisce, e Luisa vive una specie di vedovanza irritata, sospesa tra attese e disillusioni, tra liti e momenti di ammirazione per le qualità dell’uomo politico e del letterato. Non più del marito. Una cosa ancora condividono, la speranza di un’Italia libera. La partecipazione agli avvenimenti dal ’48 in poi, e ancora prima alla loro incubazione, è raccontata nelle lettere con una passione di patria che oggi possiamo appena immaginare: quello che a noi pare retorica romantica è carne viva e attesa trepida che le cose cambino. Basta leggere la lettera in cui lei racconta al marito la partecipazione della Milano patriottica alla gioia per la costituzione concessa da Ferdinando a Napoli. È una gioia per così dire muta, sotto lo sguardo cupo del governo austriaco che non può nulla contra i milanesi, popolo e nobiltà, che, con un passa parola e per tacito accordo, si riuniscono in Duomo alla messa di mezzogiorno, a ringraziare Dio di quel che è successo a Napoli. E poi a mangiar maccheroni per solidarietà con i napoletani! Qui Luisa è una narratrice vivace, l’amor di patria sovrasta le piccolezze quotidiane e la donna generosa vince le amarezze personali per farsi parte di una storia più grande.