Il motore della Russia

Una nuova offensiva in Ucraina, e un terremoto di nomine al Cremlino: Vladimir Putin ha aperto il suo nuovo mandato, il quinto, con una determinazione a vincere la guerra. Nessun segnale di distensione: all’Occidente sono state di nuovo inviate una serie di minacce nucleari, «le nostre forze strategiche sono sempre pronte a intervenire», ha promesso il presidente russo alla parata militare per la festa della vittoria sul nazismo, il 9 maggio, circondato da veterani della Seconda guerra mondiale accanto a reduci del fronte ucraino, molti dei quali accusati di crimini contro la popolazione civile a Bucha e in altre città ucraine. Poche ore dopo, ai bombardamenti incessanti di Kharkiv si è aggiunta una offensiva di terra, che ha costretto le autorità ucraine a ordinare l’evacuazione dai villaggi di quella che era rimasta la «zona grigia» tra il confine con la Russia e il territorio controllato da Kiev. La cittadina di Vovchansk in pochi giorni è stata quasi rasa al suolo dall’artiglieria e, nonostante le truppe russe siano per ora non sufficienti a espugnare la seconda città ucraina, i suoi abitanti temono che Kharkiv, martellata da bombe e missili russi, sia stata condannata da Putin a «diventare una seconda Aleppo», come dice il suo sindaco Igor Terekhov.

Gli esperti militari, ucraini e internazionali, si stanno chiedendo se l’improvvisa avanzata dei russi su Kharkiv sia l’esordio di un secondo fronte, insieme a quello principale nel Donbass, dove la pressione delle truppe di Putin ha permesso di fare nelle ultime settimane piccoli ma costanti avanzamenti, o sia soltanto un diversivo per costringere Volodymyr Zelensky a spostare parte delle sue già non ricche risorse altrove, mentre il capo dello spionaggio militare ucraino Kyrylo Budanov teme un attacco da una terza direttrice, a Sumy, nel nord. Ma forse le ragioni dell’avanzata russa sono da cercarsi a Mosca, visto che è iniziata proprio alla vigilia di quello che era partito come un leggero «rimpasto» del Governo, quasi un aggiustamento «tecnico» in occasione dell’inizio del «Putin 5», per rivelarsi un autentico ribaltamento del regime. Il dittatore russo ha «licenziato» due suoi fedelissimi rimasti al suo fianco per un quarto di secolo, Sergei Shoigu e Nikolai Patrushev.

Il primo, ministro della Difesa dal 2012 nonostante non avesse fatto nemmeno un giorno di leva, è stato l’esecutore e l’autore dell’invasione dell’Ucraina nel 2022, ed era rimasto in carica nonostante l’evidente fallimento dell’offensiva su Kiev e il conflitto con il capo del gruppo Wagner Evgeny Prigozhin, che ne aveva chiesto a gran voce il licenziamento. Il secondo, segretario del Consiglio di sicurezza ed ex capo dei servizi segreti FSB, era famoso per le sue teorie cospirazioniste antioccidentali, ma soprattutto per essere un uomo del quale Putin non aveva mai fatto a meno, quanto di più vicino a un numero due in un regime di stampo monarchico. Erano stati proprio gli uomini dell’FSB, del suo quinto dipartimento, a promettere a Putin che l’Ucraina avrebbe spalancato le braccia ai soldati russi e che il suo popolo non vedeva l’ora di tornare sotto l’ala di Mosca: un errore di giudizio clamoroso che ha in buona parte determinato l’inizio della guerra.

L’impressione infatti è che l’allontanamento dei due falchi sia stato da parte di Putin una tardiva punizione per il fallimento della «guerra lampo» ucraina. Shoigu è stato spostato al posto di Patrushev, al Consiglio di sicurezza, che a questo punto probabilmente tornerà a essere un organismo consultivo di facciata, dove vengono parcheggiati i cortigiani dismessi: il vicesegretario è l’ex presidente e premier Dmitri Medvedev, declassato a poco più di un propagandista. Il 72enne Patrushev ha ottenuto invece una carica di assistente del presidente, con delega alla cantieristica, che appare come un umiliante prepensionamento di un uomo considerato tra i più potenti di Mosca. Come ricompensa, Putin ha promosso suo figlio Dmitri da ministro dell’Agricoltura a vicepremier, ma di vice il primo ministro Mikhail Mishustin ne ha ben dieci, e il pettegolezzo moscovita che dava Patrushev Jr. come possibile «delfino» del presidente appare a questo punto definitivamente archiviato. Anche perché Putin non sembra avere alcuna intenzione di ritirarsi o di scendere a compromessi. La nomina alla Difesa del 65enne economista Andrei Belousov non sembra infatti un segnale di distensione.

È vero che l’ex ministro dello Sviluppo economico non è un falco dichiarato, ma è vero anche che non solo non ha mai contestato ovviamente la guerra, ma ha anche promosso una militarizzazione dell’economia russa riesumando il vecchio slogan sovietico «tutto per il fronte». È un «tecnico» convinto delle ragioni politiche del putinismo, e la sua missione – in quella che, dopo lo stanziamento a Kiev del pacchetto di aiuti americano e dell’aumento cospicuo di quelli europei, diventa una guerra di resistenza, dove vincerà chi ha più mezzi e risorse – è quella di legare industria, Governo ed esercito in un meccanismo unico. Il nuovo vicepremier Denis Manturov ha dichiarato alla Duma che l’industria bellica russa ha assunto, in poco più di un anno, 500 mila nuovi lavoratori, con 850 fabbriche riconvertite dalla produzione civile a usi bellici, e aumenti salariali fino al 60%.

La guerra è il nuovo motore dell’economia russa, e per quanto è evidente che sia uno sforzo che non potrà durare a lungo – le entrate dall’esportazione di gas dopo le sanzioni europee sono collassate, e quelle dalla vendita del petrolio, prevalentemente in Asia, visibilmente ridotte – serve nell’immediato a comprare il consenso di buona parte della popolazione. Le manette che continuano a scattare ai polsi dei viceministri della Difesa fanno pensare a un cambio totale ai vertici militari. Il Cremlino vuole un’economia più efficiente e un esercito meno corrotto, perché si sta preparando a una guerra lunga, nella quale non ha nessuna intenzione di fare passi indietro.

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