L’uso di tablet e smartphone sembra comportare rischi non trascurabili per la salute e lo sviluppo dei bambini. Queste le conclusioni del rapporto di un gruppo di esperti recentemente commissionato dall’Eliseo. Si tratta di conclusioni preoccupanti che propongono anche una serie di limitazioni e di divieti secondo l’età: ad esempio, non lasciare i bambini davanti a uno schermo fino a tre anni e limitare l’uso di tablet fino agli undici anni, con supervisione di adulti e scelta di contenuti educativi, ma niente smartphone. Il presidente francese ha preso in seria considerazione le proposte e sta ipotizzando di legiferare in merito, dicendosi preoccupato non solo per i rischi per la salute psicofisica di bambini e adolescenti, ma anche per il futuro della democrazia. A queste sue preoccupazioni fa eco una recente indagine americana secondo cui l’iperconnessione dei bambini li renderebbe incapaci di mantenere la concentrazione oltre i tre minuti. Come si fa allora a studiare e a sviluppare il proprio pensiero? Una popolazione che non pensa è certamente un problema anche per le democrazie. Ben vengano dunque questi campanelli d’allarme che sono innanzitutto occasioni di riflessione soprattutto per tanti genitori alle prese con le richieste capricciose dei loro bambini, spesso catturati da un mercato sempre più invadente.
La possibilità di mettere in atto controlli e divieti legali sta tuttavia suscitando dubbi e perplessità. Ma al di là delle considerazioni circa la fattibilità di tali divieti e controlli, a me pare che si riproponga qui una questione di fondo sul tema della libertà che già si era manifestata durante la pandemia. Come si ricorderà, l’obbligo di vaccinarsi, i divieti e le chiusure avevano provocato reazioni in alcune persone che si erano sentite toccate nella libera scelta dei propri comportamenti. Come ebbi a scriverne, in quel contesto mi erano parse reazioni poco giustificate: eravamo in una situazione di emergenza in cui le scelte andavano ben oltre ogni motivazione individuale. Regole e divieti sono necessari per la convivenza, in vista di un bene comune. Qui la libertà si esprime nel permesso di poter fare ciò che non è proibito. E non va dimenticato che proprio la conquista di questo genere di libertà ha scritto una storia importante di emancipazione. Tuttavia, per l’intima esperienza della nostra libertà, quando la scelta del nostro modo di stare al mondo ci interpella in prima persona, l’accettazione e il rispetto di regole imposte dall’esterno non può bastare. Per quanto necessario alla convivenza, il permesso di fare ciò che non è proibito è una forma riduttiva rispetto all’esercizio della libertà come libera scelta, e questo perché fa dipendere il mio agire da regole eteronome, non da leggi che io so dare a me stesso. La legge comporta sempre un’esperienza del limite, fondamentale per il nostro vivere convivere, ma il limite che orienta le mie scelte personali non dovrebbe essere solo qualcosa che viene da leggi e regolamenti. L’esercizio più radicale della nostra libertà ci chiede di andare oltre l’accoglienza e il rispetto di un limite che viene stabilito per legge, ci chiede di riconoscere la sua presenza nel nostro mondo interiore: il limite come radice dell’etica. Dal daimon dell’etica degli antichi che incoraggia a coltivare e a far sbocciare le nostre potenzialità per una vita buona e felice, alla «legge morale in me» di Kant che mi suggerisce che «devo perché devo», non certo per rispettare una regola esterna o non incorrere in sanzioni. È un cammino personale che ci può accompagnare oltre la percezione della libertà come quantità di ciò che mi è permesso. «Lui è più libero di me, dicono gli studenti, perché ha il permesso di rientrare più tardi la sera». È anche vero che, nello scegliere la verdura al supermercato, con 30 franchi in tasca posso essere più libero del mio amico che ne ha solo 20. Eppure, oltre la percezione di queste libertà misurabili è dato a tutti noi di sperimentarla, la libertà, anche come qualità non misurabile della mia vita. Anche l’impegno etico della politica potrebbe andare oltre lo strumento normativo scegliendo vie diverse per incoraggiare comportamenti personali che riconoscano nel limite una preziosa qualità della libertà. Di fronte ai campanelli d’allarme per l’iperconnessione dei bambini penso innanzitutto alle responsabilità della politica scolastica nell’assumere l’impegno etico di promuovere il valore della conoscenza come un bene e come pura finalità, rinunciando a valorizzarne l’utilità sempre più tecnologicamente coltivata.