Risalente al marzo del 1988, Jacques Chessex, scrittore è una testimonianza che il grande autore svizzero di lingua francese (Payerne, 1934 – Yverdon-les-Bains, 2009) ha consegnato attraverso la registrazione di una conversazione con Bertil Galland per la regia di Bastien Genoux. Il documento è stato restaurato nel 2010, in vista della realizzazione di un DVD, ed è oggi disponibile su Play Suisse.
Siamo a Ropraz, nello studio dell’autore de L’orco (Prix Goncourt del 1973), e Chessex è alla scrivania. «È primavera, Jacques, e piove. Ha nevicato un po’ sulle alture, ma i primi germogli stanno spuntando», esordisce Galland. «Non sappiamo a chi stiamo parlando, forse a delle persone del futuro. I morti parlano ai vivi e noi adesso siamo i vivi».
Chessex lo fissa con occhi attenti, come se, compiaciuto, sorridesse fra sé e sé per l’esordio dell’amico. Alle sue spalle ha trentaquattro anni di lavoro, durante i quali ha pubblicato libri di poesia, racconti, romanzi e saggi. Ha collaborato con la «Nouvelle Revue Française», frequentando Jean Paulhan e Marcel Arland, e ora insegna alla Facoltà di Lettere di Losanna, dove in gioventù si è formato e sono passati autori quali Ramuz, Roud e Mercanton. Il suo volto baffuto, immortalato in un bianco e nero anni ’80, ricorda quello di Jerzy Grotowsky.
Dopo la lettura di una poesia dalla sua più recente raccolta, Chessex parla dei suoi inizi, raccontando come il sentire poetico e la necessità del dire lo abbiano sempre accompagnato: «Molto presto ho sentito la nostalgia dell’espressione. Presto sono stato colpito – a volte ferito – dalla bellezza degli esseri e dei paesaggi, dallo splendore animale». Con le sue parole Chessex ci riporta subito a quei «poeti di sette anni» di cui parlava Rimbaud riferendo delle sue precoci illuminazioni d’enfant prodige.
Sì, perché con i maudits francesi lo scrittore ha molto a che spartire, essendo la sua una voce oscura – unanimemente considerata una delle più significative della letteratura francofona del secondo ’900.
Con L’orco (Fazi, 2010) ha infatti narrato la storia di un figlio costretto a fronteggiare il suicidio di un padre autoritario e crudele, che ha avvelenato la vita del protagonista con l’onnipresenza oltraggiosa della sua ombra violenta, esasperatamente calvinista. Ne Il vampiro di Ropraz (Fazi, 2009) Chessex darà voce, attingendo a un fatto di cronaca del 1903, alla folle caccia alle streghe diffusasi in seguito al ritrovamento di una tomba profanata nel paesino del Canton Vaud. Infine, in Un ebreo come esempio (Fazi, 2011) metterà il dito nella piaga dell’antisemitismo elvetico, attingendo alla sua personale testimonianza di bambino (e questi non sono che tre esempi, qui riportati perché tutti disponibili in lingua italiana assieme a Il primo odore – Alberto Gaffi editore in Roma, 2006 –, L’ultimo cranio del Marchese De Sade – Fazi, 2012 – e a Perdonami madre – Armando Dadò, 2022).
Sollecitato dalle domande dell’amico, in Jacques Chessex, scrittore il poeta-romanziere (nonché critico e pittore) oltre a riferire del suo apprendistato intellettuale e umano, a raccontare di libri come Portrait des Vaudois (1969) e Carabas (1971), passa in rassegna gli autori prediletti, fra i quali spiccano Hemingway, per la sua «audacia di scrivere sulle corna del toro», e Gustave Roud, il grande letterato romando da lui considerato un «santo» capace di avvicinare la realtà alla sua natura più vera.
Ed è un certo sentimento della fine, così come il profondo desiderio di meditazione su quest’ultima, ad emergere dalla sua figura impassibile, che, interrogata sulla propria metà oscura afferma: «Non potrei eliminare l’ombra senza, al contempo, uccidere la luce. Non penso sia possibile una salvezza (…) senza l’accettazione della nostra pelle, della nostra carne, delle nostre ossa e di ciò che di noi è destinato, con la morte, al rischio di non vedere di Dio nell’eternità».