Niente, probabilmente, incarna il simbolo del potere nell’ultimo secolo più dei grattacieli. E più dei grattacieli di New York. Ce lo ricordano due delle più rilevanti e stimolanti pellicole del 77esimo Festival di Cannes che si è chiuso sabato, ovvero Megalopolis di Francis Ford Coppola (nella foto un’immagine tratta dal film) e The Apprentice di Ali Abbasi.
Del resto già nel King Kong del 1933 il gorilla si arrampicava per dominare la città, mentre nei nuovi film a puntare in alto sono lo scienziato imprenditore visionario Cesare Catilina e un giovane arrembante inarrestabile Donald Trump. Due opere molto distanti nella forma, tanto il primo è debordante, barocco e vitale, quanto l’altro è lineare, incalzante e va diritto al punto. Coppola trasforma la Grande Mela in una New Rome con tanto di corsa delle bighe per una fiaba fantapolitica dal sapore shakespeariano che vuole esplorare come crollano gli imperi. Il populista Catilina ha conquistato gli uffici nel Chrysler Building e coltiva l’utopia di una Megalopoli fondata sul futuristico materiale megalon, contrapponendosi al pragmatico sindaco Cicero che invece crede nell’acciaio e nel cemento. Anche Trump crede nei materiali tradizionali, ma si scontra con i primi cittadini: se non crede nella politica («è da perdenti» sostiene, ripetendo continuamente l’alternativa tra killer vincenti e loser), sa utilizzarla e corromperla. Coppola cita Ralph Waldo Emerson a proposito dell’umanità che sarà distrutta dalla civilizzazione e su questo punto è molto pessimista, mostrando rivolte per le strade e il crescere di sentimenti antipolitici.
Il pessimismo accompagna lo spettatore assistendo alla scalata di Trump, anche se la pellicola si ferma ben prima dell’elezione del 2016. Abbasi non vuole rivelare fatti nuovi quanto mostrare un metodo e una personalità, che incarnano il peggior volto del capitalismo. Si basa sulla lezione dell’avvocato Roy Cohn che salvò Trump dai guai giudiziari a inizio anni 70 e ne fece uno squalo vorace all’insegna delle tre regole d’oro: «Attacca, attacca attacca; nega sempre; non ammettere la sconfitta». Da notare il coraggio di Abbasi, che già aveva sfidato il governo iraniano in Holy Spider, nell’andar contro un potente sulla cresta dell’onda. Lo stile invece è da cinema impegnato anni 70 e non a caso apre con Richard Nixon che si proclama innocente nel mezzo del Watergate.
Nello stesso decennio approda a New York dall’Urss pure Eduard Limonov, raccontato dal russo antiputiniano Kirill Serebrennikov in Limonov – The Ballad a partire dal romanzo di Emmanuel Carrère. Una parabola di ribellione tra beat e punk, una figura allergica a tutto, a cominciare dal comunismo e da tutte le leggi, ma non al nazionalismo e qui ci si ricollega a Trump.
I leader di oggi compaiono in Rumours dei canadesi Guy Maddin e Evan e Galen Johnson, film ambientato durante una riunione del G7 in un castello in Germania. Soli, senza accompagnatori, i sette capi visitano inquietanti scavi archeologici, e a seguire cenano cercando di concordare una dichiarazione finale del vertice. Tra i vari personaggi c’è l’anziano presidente americano catalettico che sogna di essere assassinato, la tedesca pragmatica ma non così dura (Cate Blanchett), il canadese sentimentale e depresso che citerà una canzone di Neil Young al momento giusto. Ci sono sempre crisi, sostengono, ma i sette sembrano inadatti ad affrontarle e si perdono in parole vuote.
Il film inizia come commedia grottesca e volge all’horror, punta più all’atmosfera e alla psicologia dei potenti (e i rapporti tra di loro) che alla fantapolitica: ricorda l’argentino Il presidente – La cordillera di Santiago Mitre e Adults in the Room di Costa-Gavras, con una componente di Melancholia.
La visione generale che emerge dai film visti a Cannes è quella del potere corrotto e c’è un’aperta critica al mondo politico di oggi. L’unico a uscirne bene è il Presidente brasiliano Lula nel documentario di Oliver Stone che porta il suo nome. Il regista americano di Jfk ricostruisce la vicenda del sindacalista nato povero che fondò il Partito dei lavoratori e lo portò al potere, riuscendo a togliere dalla povertà decine di milioni di connazionali, liberare il Brasile dal giogo del debito estero e farlo diventare uno dei grandi che contano. Il lavoro di Stone è di parte, elogia il protagonista e i suoi risultati, ma è anche l’ennesima critica alla politica estera degli Stati Uniti e alle sue interferenze in Sudamerica, considerato «il giardino di casa».
Non mostra invece i capi di stato e governo l’ucraino Sergei Loznitsa che, dieci anni dopo Maidan e sei dopo Donbass, filma in The Invasion come il suo Paese resiste all’aggressione russa. Episodi che si succedono, tra funerali di soldati, allarmi aerei nelle scuole, attrici che portano aiuti al fronte, feriti al fronte o soldati amputati in riabilitazione, senza far vedere né Zelensky né Putin. Loznitsa non mostra neppure esplosioni o azioni di guerra, solo chi ne paga le conseguenze.