La prigione a cielo aperto di Gwadar

Una prigione a cielo aperto, e non in senso metaforico. Circondata per tre lati dal mare e da nord da un complicato sistema di filo spinato, cavalli di frisia e posti di blocco coadiuvati da cinquecento telecamere di sorveglianza dotate di sistemi di riconoscimento facciale. Si parla di Gwadar, nella regione pakistana del Balucistan, fiore all’occhiello di quel progetto di stampo coloniale-imperialistico battezzato China-Pakistan Economic Corridor e il cosiddetto Gwadar Fencing Project è l’ennesima violazione di ogni diritto umano e civile degli abitanti della regione. Progetto che, se portato a compimento, taglierà definitivamente fuori sia dall’accesso al mare che dall’accesso all’acqua potabile e dalla fruizione della propria città gli abitanti del Balucistan.

L’esercito pakistano sostiene che l’iniziativa delle recinzioni è una semplice misura di sicurezza, ma l’iniziativa ha scatenato le proteste dei residenti locali, portando alla temporanea sospensione dei lavori: secondo gli abitanti della zona si tratta difatti dell’ennesimo tentativo di regolare la circolazione dei cittadini, di occupare, sfruttare le loro risorse, di schedare e controllare coloro che dipendono da tali risorse. Secondo il cosiddetto master plan del progetto, Gwadar dovrebbe essere divisa grosso modo in tre zone distinte: Gwadar Port Free Zone, GIEDA Industrial Zone e EPZA Export Processing Zone. Il fiore all’occhiello del progetto è la cosiddetta Gwadar Smart Port City (la zona del porto), che si sviluppa su circa 300 chilometri quadrati e che comprende: «resort di lusso, shopping malls a campi da golf fronte mare». La progettata recinzione fa parte del piano Gwadar Safe City di sicurezza per queste aree. Peccato che, secondo gli abitanti di Gwadar, il filo spinato non sia nemmeno lontanamente vicino a una di queste zone. E che, secondo la popolazione locale, il vero scopo del filo spinato e dei quindicimila soldati cinesi installatisi al porto, su cui sventolano assieme le bandiere cinese e pakistana, non sarebbe quello di garantire la sicurezza delle installazioni commerciali ma soltanto quello di difendere gli interessi di Pechino e di tenere i beluci fuori dalle zone da sviluppare. Tanto che, a quanto pare, l’esercito sta perfino progettando di rilasciare carte d’ingresso speciali o pass ai residenti che, per inciso, vengono regolarmente sfrattati dalle loro abitazioni senza cerimonie.

Gwadar, nelle intenzioni di Pechino, doveva diventare una «nuova Dubai», una inesauribile fonte di denaro sonante e accorciare le rotte commerciali cinesi. Però qualcosa è andato storto: il porto di Gwadar, nonostante sia stato completato nel 2007, non solo non è riuscito ad attrarre nessuna linea di navigazione d’altura regolare, ma nel suo momento di massimo splendore ha registrato un traffico di appena 22 navi all’anno. In compenso l’occupazione cinese, in aggiunta ai militari pakistani, è riuscita a esacerbare la popolazione del Balucistan già esacerbata da anni di sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, fosse comuni, violazioni di diritti umani e civili, crescita a dismisura del debito pubblico. E la situazione rischia di peggiorare. Lo scorso 13 maggio difatti il ministro dei Trasporti indiano Sarbananda Sonowal ha firmato a Teheran un contratto decennale da parte della India Ports Global Ltd con l’Organizzazione marittima dell’Iran (Paese in lutto per la morte del presidente Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero). In base al patto, l’India investirà circa 120 milioni di dollari per sviluppare e gestire il porto di Chabahar, oltre a offrire una finestra di credito di 250 milioni di dollari per il miglioramento delle infrastrutture. Chabahar, che in persiano significa «quattro sorgenti», è un porto in acque profonde nella provincia del Sistan Balucistan, in Iran, a circa 170 chilometri da Gwadar. Situato in mare aperto, offre un accesso facile e sicuro alle grandi navi da carico: è vicino al Golfo di Oman e allo Stretto di Hormuz. Da Chabahar parte una strada che arriva fino a Zaranj, in Afghanistan. La strada di 218 km (costruita con il sostegno dell’India) darà accesso a quattro grandi città: Herat, Kandahar, Kabul e Mazar-e-Sharif.

È la prima volta che l’India assumerà la gestione completa di un porto d’oltremare, il che avrà anche un effetto moltiplicatore sul commercio con l’Iran e l’Afghanistan aggirando il problematico Pakistan. Inoltre, da un punto di vista strategico, l’India sarà in grado di monitorare le attività della Cina nel Golfo Persico attraverso Chabahar. Creando anche una serie di corto-circuiti geopolitici suscettibili di sviluppi interessanti: Iran e Pakistan, nonostante nei mesi scorsi abbiano bombardato a vicenda i baluci dall’altra parte dei rispettivi confini, insistono sull’amicizia tra i due Paesi. I talebani sono divisi tra fazioni pro-Pakistan e fazioni vicine all’Iran. L’India, arci-nemico del Pakistan, ha fornito aiuti umanitari ai talebani ma, oltre a gestire Chabahar, sta sviluppando il porto israeliano di Haifa: mentre l’Iran finanzia i gruppi terroristici che attaccano Israele.

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