L’editore Interno Poesia torna a dare alle stampe, di Emily Brontë, con scelta del tutto condivisibile, il materiale da sempre rimasto in ombra, quello poetico, con la raccolta dal titolo La musa tempestosa, per la curatela e traduzione di Silvio Raffo, che già nel 2004, ebbe modo di misurarsi con la produzione dell’autrice, attraverso la cura del libro uscito per Mondadori, Anne, Charlotte, Emily Brontë, Poesie (nell’immagine qui a lato le tre sorelle sono ritratte insieme nella canonica di Haworth).
Alla scrittrice britannica, conosciuta per il romanzo simbolo dell’ottocento romantico inglese, Cime tempestose, sono difatti da sempre associate, come compagne di passioni intellettive, due delle quattro sorelle, Charlotte ed Anne, anch’esse pervase dalla vena lirica, anche se per tono e stile inferiori ma autrici di romanzi importanti; si ricordi Jane Eyre di Charlotte. E questa nuova raccolta ha naturalmente una sua rilevanza, poiché ci aiuta davvero a illuminare pienamente la nascita di una poetessa e di quel pensiero-fondale retrostante, che poi informerà tutta la sua produzione letteraria tout court. Pensiero che si sviluppa su un pilastro-evento quale la morte della madre, che se anche subita in età puberale, avrà riflessi grandi sulla sua identità, oltre che naturalmente su quella che sarà la vita quotidiana. Compare difatti, per il suo accudimento, la sorella del padre, Elizabeth Branwell, che avrà veste di madre, ma anche di istitutrice severa. E poi quel silenzio della casa-canonica, dove lei, le sorelle e il fratello Branwell vivevano, sita a Haworth nello Yorkshire, concessa al padre Patrick, reverendo protestante e grande cultore anch’egli di poesia, per la cura della chiesa attigua di Saint Michael and All Angels.
Silenzio che Emily imparò subito quindi ad ascoltare e comprendere: «…// Ora perché quest’aspra solitudine?/ Non un passo la scala a rallegrare / né risate né un suono il cuore a risvegliare, /…//…». Ecco, quel silenzio nella pagina ne diviene molti e differenti: c’è quello fondo delle stanze della canonica, quando non è rotto dai giochi di Emily e delle sorelle, il silenzio esterno, maestoso e vociante della brughiera ventosa, dei cieli luminosi e irraggiungibili e infine, quello definitivo ma non per questo senza rimando, dei morti. Eccoli, disposti in sobrie file, nel cimitero attiguo alla canonica: «… // Che importa calpestare ombre di morti / – dormono così a fondo nella tomba – ? / Perché i mortali temono il sentiero / che alla dimora eterna li conduce? /». E si innesta proprio in questa dimensione complessa, tra relazioni essenziali e silenzi ultratombali, l’educazione alla parola, che le viene impartita attraverso canali didattici tradizionali ma anche informali e del tutto originali. Si pensi alla domestica irlandese, Tabytha Aykroyd, grande dispensatrice di storie e leggende, che la preparò sicuramente allo spazio visionario. E allora questa parola, possiamo davvero anche dirla annichilente, perché nel fondo di ogni suo quadro umano o naturale che sia, vi è sempre una visione, che porta ad altre visioni ma che infine portano a quelle del nulla: «Il maniero di Elbe, solitarie rovine, / dimore senza più voci di vita; / squallide stanze d’erba d’edera senza tetto; / finestre d’archi infranti fra cui sospira il vento: / qui dimorano i morti, da tanto tempo andati /».
Nella sua pur breve vita poi, trent’anni, Emily fu molto restia agli spostamenti. Ricordiamo la sua permanenza, per qualche mese, nella scuola di un paese chiamato Roe Head, come allieva; poi alcuni anni dopo, per breve tempo insegnò a Law Hill; e ancora a Bruxelles con Charlotte ad apprendere la lingua francese. Ma Emily appunto, ritrovava la sua vera dimensione solo nella grande canonica, in quelle stanze stregate sembrava respirasse un senso di finitezza e infinitezza al tempo: «… // Ritorno ai giorni di una età lontana: / sono ancora una volta una fanciulla / che nel nido paterno si rintana / presso la porta dell’antica sala; //…». Di dolore acuminato perché consapevole della precarietà di ogni cosa e assieme di gioia estrema, dovuta a questa presa di coscienza chiara, che le bruciava dentro, disponendola a una continua ebbrezza. Lavorava in Emily, quindi, una diversa consapevolezza dello stare al mondo. La sua parola, allora, potremmo dire, costruì di volta in volta, per paradosso, il manufatto del silenzio che sembra, leggendo talune pagine, investirci ancora attraverso quel vento, quel brusio, tra l’erica.
Avvertiamo, nei versi che dietro il paesaggio senza tempo della brughiera gioca come contraltare, quello minimo dell’uomo, con le sue emozioni repentine e subito finite. E nella poetessa, forse, oltre che lo spirito romantico, agisce già un prodromo di esistenzialismo, di qualcosa che gira su sé stesso, senza vie di fuga o speranze, e al quale potremmo dare un nome: disperazione, che la sua poesia poi, restituisce ad uno stato incandescente e al tempo primitivo. Quello stato di sgomenta presenza alla vita, già appartenente al primo uomo, a ogni uomo: «/ Su ogni volto la tenebra era scesa, / cupi presagi nubi di tempesta; / nessun ristoro in palazzi o capanne / nessun riposo fuorché nella tomba. // …». Una disperazione organica, potremmo pensarla, ad Emily, toccante quel punto indefinito tra psiche e corpo; proprio quella psiche, che appunto cadde in un pozzo nero, alla morte del suo amato fratello, Branwell, artista e poeta di talento mediocre, distrutto dall’alcol e trasfigurato tra l’altro nel personaggio di Heathcliff in Cime Tempestose.
Ebbene, alla sua morte, avvenuta nel settembre del 1848, Emily precipita in quel baratro, luogo misterioso e irreversibile, in cui la mente deliberatamente vuole trovarsi per abbattere il proprio corpo. Lì rimane a scontare il proprio dolore; decide difatti, che quel pozzo mentale, l’ultima sua dimora, non può avere dei ganci di risalita. È lì il suo corpo, immobile, prostrato, nel fondo. Guarda il cielo irraggiungibile, le nuvole adorate sfilare via a cirri nel cerchio in alto e intanto sente la morte sopraggiungerle da dentro. Emily difatti si ammala, nello stesso mese in cui muore il fratello e rimane nel suo letto, per circa tre mesi, rifiuta ogni cura e a dicembre, quando sembra accettare la presenza di un medico, è oramai troppo tardi. La botola l’ha definitivamente inghiottita.
Questa quindi è la lezione: relazioni, amicizia, amori, tutto termina. Questa la consapevolezza che lambisce l’attimo di ogni suo oggi, quasi erodendolo. Proviamo allora a vivere con quei suoi occhi, ogni nostro giorno; quegli occhi che ci guardano da dietro queste pagine e trasmettono ciò che la grande poesia, sempre e solo dovrebbe: consapevolezza di costruire, sì, ma nella precarietà, ogni bellissimo sguardo d’amore, ogni paesaggio interiore, come Emily è stata maestra nel creare: «…// Se alla tua morte una lacrima scende / sul mio viso, ti dico in verità, / sappi che è la mia anima che attende / di raggiungerti nell’eternità /». Ecco, in Brontë, si respira questa escatologia delle cose ultime ma come intrise di ogni oggi e della grazia del suo attimo, senza il quale, sembra suggerirci, mai potremmo sentire, mai vivere davvero.