Il ritorno delle mezze stagioni

Il problema è semplice, la soluzione un po’ meno: vorrei esporre un’idea balzana e non so da che parte iniziare. Provo a partire da lontano, dicendo che le mie conoscenze della meteorologìa sono riconducibili a nozioni poco scientifiche. Incominciano dal «Quant ul Generus al gh’a sü ul capell/o che l piöf o che l fa bel», un detto appreso da bambino che oscilla magnificamente fra la presa in giro (anche dei meteorologi) e l’ingenuità popolare. Altri elementi li ho ricavati da un opuscolo di oltre 40 anni fa del Folclore svizzero, il bollettino della Società svizzera per le tradizioni popolari, che ogni tanto mi piace consultare per passare in rassegna la sfilza di proverbi del Mendrisiotto riuniti da un giovane Franco Lurà che già allora padroneggiava un mirabile «tono discorsivo e famigliare». A quelli legati alla meteorologia e ai fenomeni atmosferici, nel suo saggio linguistico Lurà ha aggiunto anche detti e proverbi legati al lavoro nei campi e alla religione. Poi naturalmente ho ampliato le mie cognizioni, tanto che ultimamente, parlando di una primavera sempre di là da venire, ho potuto spiegare l’immutata validità del detto «Finché gh’è mia föia sui casctàn/sa discvüstiss mia ul cristiàn».

Alla premessa faccio seguire un interrogativo: visto che le vere stagioni ormai sono scomparse, non è forse opportuno riabilitare le mezze stagioni, quelle che da tanto tempo «non ci sono più»? Il riscaldamento globale negli ultimi decenni ha sicuramente contribuito a peggiorare i fenomeni meteorologici estremi alle nostre latitudini recando scompiglio e incertezze nel periodico alternarsi delle stagioni. Sono arrivato a credere che il citatissimo aforisma di Ennio Flaiano («Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno») fosse un profetico campanello di allarme del sottosopra climatico e dell’inevitabile avvento di una «destagionalità meteorologica» – contrassegnata quest’anno (rassegna veloce) da un febbraio con tramonti dalle cento sfumature rosse e temperature vicine ai 20 gradi, poi da settimane in aprile e maggio segnate da perdurante maltempo e da continui su e giù dei termometri che lasciano presagire future siccità prolungate e temperature torride. Ora siamo arrivati al punto da chiederci se le stagioni, come le abbiamo vissute sinora, non siano scomparse o siano state relegate in second’ordine dalle mezze stagioni. Ed è da questo interrogativo che ha origine la mia idea stravagante: creare una rosa delle stagioni, riconducibile a quella dei venti, con a nord l’inverno al posto del vento di tramontana, a est la primavera al posto del levante, a sud l’estate che soppianta il vento da mezzogiorno e infine l’autunno che a ovest sostituisce il vento da ponente.

In questo diagramma al posto dei venti che spirano da nord-est (il grecale), sud-est (lo scirocco), sud-ovest (il libeccio) e da nord-ovest (il maestrale) verrebbero collocate le mezze stagioni. Facendo ricorso a nomi fittizi, la prima, abbinata al grecale di nord-est, la chiamerei «invera». È contrassegnata da una primavera anticipata tra gennaio e metà febbraio e disturba un sempre tentennante inverno influenzando anche il passaggio a una bella stagione (è stato così anche quest’anno, con fioriture delle viti e ciliegie già sui rami, ma i castagni ancora senza foglie). Alla seconda mezza stagione, posta nel diagramma a sud-est, darei il nome di «primate»: si attiva cercando di ritardare l’avvio dell’estate fino a luglio inoltrato. La mezza stagione del libeccio, nome «estunno» è caratterizzata invece dal prolungarsi dell’estate sino a metà ottobre, lasciando così poche settimane all’autunno vero. L’ultima mezza stagione, quella del maestrale a nord-ovest, con il nome di «auterno», disturba invece un sempre più breve inverno che poco dopo gennaio ritroverà una nuova «invera». Concludo questo mio futile «excursus» meteorologico con una confessione: rimpiango i tempi in cui «sentivamo» l’arrivo delle stagioni dapprima con il «Che dice la pioggerellina di marzo?», poi con il «Mi hanno portato una conchiglia», a cui facevano seguito l’«Odor di stoppie bruciate» e il conclusivo «Nevica; l’aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve». Riusciranno i nuovi poeti a cantare le mezze stagioni?

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