Così Kafka chiamò Praga, la sua città, dalla quale fu profondamente influenzato senza riuscire quasi mai a staccarsene
Il mostruoso come ovvio, aveva scritto a suo tempo il filosofo Th. W. Adorno parlando del racconto La metamorfosi di Franz Kafka del 1912. L’inizio è fulminante e fatale: il commesso viaggiatore Gregor Samsa si sveglia una mattina da sogni inquieti e si trova trasformato in un insetto. Così come il primo procuratore di banca Joseph K. nel romanzo incompiuto Il processo, scritto fra il 1914 e i primi mesi del 1915 e pubblicato postumo nel 1921, viene arrestato senza aver fatto nulla di male. Figure accomunate da un senso di esclusione dalla realtà dominata dalle terribili immagini di un potere arbitrario e indifferente. Quello stesso che emerge dalla Lettera al padre del 1919, mai giunta a destinazione, nella quale il genitore è definito tiranno e giudice in un contesto familiare che lo scrittore vive come un incessante processo. Paradossale è il fatto che quella testimonianza si converta poi in una sorta di grottesca autocondanna: Kafka cerca in qualche modo sollievo nel senso di colpa confessando all’amico Felix Weltsch che il suo carattere «è la più bella forma di pentimento». Anche se sconfitto, l’orgoglio gli impedisce di ritirarsi.
È una resistenza che richiama l’atteggiamento di Joseph K. di fronte alla misteriosa e onnipotente burocrazia del tribunale, che non è più un nemico, come ha ricordato lo scrittore Milan Kundera, ma piuttosto una verità inaccessibile che egli insegue senza sosta, anche a costo della vita, nel tentativo di dare senso a un mondo del tutto insensato. Così come ne Il castello, l’ultimo dei tre romanzi scritto intorno al 1922, il protagonista, l’agrimensore K., cerca con ostinata perseveranza, ma inutilmente, un contatto con gli alti funzionari e il Conte Westwest, che vivono nella nobile dimora che domina il villaggio, per ottenere il lavoro promesso e in qualche modo una più umana e schietta giustizia. Del resto anche il sedicenne Karl Rossmann, protagonista del primo romanzo incompiuto di Kafka, che l’amico Max Brod pubblicherà nel 1924 con il titolo America, è un escluso: ripudiato dai genitori viene costretto a emigrare nel Nuovo Mondo perché sedotto da una domestica rimasta incinta.
Sullo sfondo di queste vicende si proietta il tema della giustizia attraverso le infinite sfumature di quel potere che, in forme diverse, rispecchia la sostanza e l’anonimo orizzonte delle pagine dello scrittore praghese, che il critico Reiner Stach ha ampiamente analizzato nella sua biografia in tre volumi pubblicati fra il 2002 e il 2014 e ora proposti da ilSaggiatore nell’ottima versione di Mauro Nervi. Un’opera ammirevole che dischiude nuove e interessanti prospettive grazie a testimonianze e fonti inedite. L’autore descrive con scioltezza narrativa anche il mondo della Mitteleuropa e la realtà storica e culturale di Praga, dove Kafka era nato nel 1883, la «mammina con gli artigli» come egli la definì, e dove per una decina d’anni lavorò come funzionario dell’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni del regno di Boemia (nell’immagine che ritrae un angolo di Praga di inizio Novecento, vediamo il Ponte Ceco che porta in città vecchia dove viveva Kafka). Di Stach del resto avevamo già letto i 99 curiosi e gustosissimi reperti del volume Questo è Kafka? (Adelphi 2016), da cui affiorava uno scrittore piuttosto inedito: frequentatore di bordelli, collezionista di foto audaci, falsificatore di firme o in giostra fra ragazzine strepitanti.
Flash che danno vivacità e colore a una vita povera di eventi, in cui anche i rapporti sentimentali sono spesso vissuti in modo patologico, come esperienze di fatale solitudine. Così il fidanzamento a più riprese con Felice Bauer, la latente seduzione di Grete Bloch o della giovane Julie Wohryzek, figlia del custode di una sinagoga di Praga e la passione verso la vivace giornalista Milena Jesenská, definita «un fuoco vivo», con cui Kafka avrà un’ intensa corrispondenza. Diverso fu il breve rapporto con la figura protettiva della giovane ebrea polacca Dora Diamant, che gli sarà accanto a Berlino negli ultimi mesi di vita e lo assisterà fino alla morte nel giugno del 1924 in un sanatorio presso Vienna. Del resto, come scrisse a Felice nel 1916, «qualsiasi vincolo che non è creato da me stesso, foss’anche contro parti del mio io, è senza valore, m’impedisce di avanzare, lo odio e sono molto vicino a detestarlo».
Lo scrittore sembra incapace di accettare il disordine e l’ebbrezza dei sensi: non è dunque un caso che la figura femminile, attraverso i per-sonaggi contrastanti di Frieda e di Amalia, diventi cardine del romanzo Il castello convogliando in sé l’ambiguità dell’eros legato al caos e alla vertigine. Perfino la tubercolosi polmonare diagnosticatagli nel 1917, che lo costringe a soggiornare in vari sanatori, gli appare come una liberazione da tutti gli obblighi professionali e matrimoniali. Si ritirerà per alcuni mesi a Zürau, un paesino della Boemia presso Ottla, la più amata delle sue tre sorelle, per poi riprendere a scrivere a Praga. Infatti, come sostenne sempre, egli non è altro che letteratura, e proprio nelle ore notturne, quando sovente lavora, si sente investito da uno «strepito universale», che è armonia oppressa a cui occorre dare libero sfogo.
Tuttavia in questa forma di ascesi e di eremitaggio non si sente affatto stabile: «Vacillo – annota – (…) non riesco, si può dire, a sostenermi neanche un istante». Eppure sogna di conciliare quella vocazione divenuta più indispensabile della vita, di cui parla ampiamente nelle lettere a Felice Bauer, con il matrimonio e i grandi temi dell’ebraismo. Ma per Kafka la scrittura col tempo è sempre più associata alla pena e al castigo simbolizzato, fra il resto, dal congegno di tortura al centro del racconto Nella colonia penale. Un destino che coinvolge anche gli inconsapevoli personaggi del Processo e del Castello ingannati ed esclusi da ogni possibilità di difesa o di accesso alla vita. Restano, se mai, tracce, come nell’ultimo racconto Josefine la cantante ossia il popolo dei topi, di una felicità perduta e irrecuperabile. E non viene meno la sua tenacia: «Io non ho speranza di vittoria – si legge in un frammento – e la lotta non mi dà gioia in sé, ma solo perché è l’unica cosa che si ha da fare».