Echi di storia, doppia intervista sull’identità del nostro Paese agli esperti André Holenstein e Paolo Ostinelli in vista dell’imminente primo Festival di storia nel nostro Cantone
Come si spiega la splendida eccezione della Svizzera nel cuore dell’Europa? Il suo essere al centro del Vecchio continente senza farne davvero parte? Tra gli appuntamenti da non perdere del primo Festival di storia in Ticino (Echi di storia, di cui avevamo parlato nelle precedenti edizioni di «Azione») ci sarà, sabato 8 giugno dalle 16.00 all’Asilo Ciani, il faccia a faccia tra i due storici svizzeri André Holenstein e Paolo Ostinelli, che affronteranno questi e altri temi a essi strettamente legati. Un incontro intrigante a ridosso della pubblicazione in italiano del volume di Holenstein Nel cuore d’Europa. Una storia della Svizzera fra apertura e ripiegamento (Collana Atis/Quaderni di storia svizzera, Giampiero Casagrande, 2024), forse il saggio di storia svizzera di maggior successo di pubblico e di critica degli ultimi anni. Per pregustare l’evento, abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Ostinelli (PO), direttore del Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona e professore titolare di Storia del Medioevo all’Università di Zurigo, e ad André Holenstein (AH), professore emerito di storia della Svizzera e storia regionale comparata e già direttore dell’Istituto di Storia dell’Università di Berna.
Dal 6 al 9 giugno l’Unione europea è al voto con un buco di elettori nel suo mezzo, quello della Svizzera. Quanto sono profonde le radici di questo buco?
(AH) Sono profonde, ma la situazione odierna non è il frutto di una continuità nel corso dei secoli. Al centro geografico dell’Europa, la Svizzera non è mai stata un’isola, anzi ha potuto approfittare di una posizione privilegiata che nell’Ancien Régime le ha permesso di avere uno sviluppo particolare, all’interno del sistema imperniato sulle maggiori monarchie. Lo Stato federale moderno nato nel 1848, poi, ha potuto appoggiarsi su una situazione influenzata dal riconoscimento dei confini elvetici da parte di Napoleone, e dall’accettazione del suo assetto politico e della sua neutralità da parte del Congresso di Vienna del 1815. Su queste coordinate, e sullo sfondo delle vicende del XX secolo, delle guerre mondiali e del confronto fra i blocchi occidentale e orientale, si è infine delineato l’atteggiamento riluttante della Svizzera nei confronti delle proposte di integrazione del Continente: un atteggiamento che si è appoggiato sulla difesa della sovranità nazionale, intesa nel senso di un’autonomia più ampia possibile, oltre che sull’interpretazione della neutralità come astensione e sulla salvaguardia degli interessi economici.
Perché la Svizzera si sente «altra»? Quando nasce il caso svizzero, la sua autocomprensione un po’ da villaggio di Asterix: ai tempi del leggendario Guglielmo Tell?
(PO) Tra i fattori che tra il Quattrocento e il Cinquecento hanno portato al consolidamento delle alleanze fra i Cantoni e alla formazione della «vecchia Confederazione», oltre alla nascita dei miti di fondazione intorno alle narrazioni delle rivolte contro gli oppressori esterni e alle figure di eroi come Guglielmo Tell, ha avuto un peso specifico anche la costruzione di un’immagine dei Confederati alternativa rispetto agli avversari di allora. Alla feroce propaganda che dipingeva gli svizzeri come primitivi, sovversivi e ribelli contro nobili e signori, si contrappose una rappresentazione di sé fondata sul presupposto che i «nobili contadini» confederati fossero un popolo capace di difendersi perché protetto da Dio. Sono le prime tracce di un’immagine «altra» rispetto all’esterno, riemersa regolarmente nella storiografia costruita sui miti fondativi, che ha attraversato tutta l’epoca moderna per poi rinfocolarsi nell’Ottocento e nel Novecento inoltrato, quando l’interpretazione in senso nazionalistico è stata funzionale al consolidamento del sentimento di appartenenza e alla cosiddetta «difesa spirituale».
I richiami mitizzati alle prime manifestazioni di autonomia sono ancora presenti nell’immaginario di molti. Dal punto di vista storico ha senso festeggiare la festa della patria il 1. di agosto?
(PO) Ha senso chiedersi perché sia proprio questa la festa nazionale svizzera. La prima volta in cui si è celebrata fu nel 1891, quando si tenne una celebrazione del sesto centenario del patto fra Uri, Svitto e Unterwalden del 1291, e solo qualche anno dopo la ricorrenza è divenuta annuale. Fino a poco tempo prima si considerava come data di fondazione della Confederazione il 1307. Perciò anche il Primo agosto è figlio dell’Ottocento: attraverso una festa commemorativa che riguardasse tutto il Paese, e non più soltanto ogni comunità per sé, si è promossa la formazione di una coscienza nazionale. Quanto ai fatti, comunque, l’alleanza del 1291 è stata uno fra i tanti accordi che all’epoca venivano stipulati per mantenere la pace o promuovere interessi comuni fra città, nobili e comunità, spesso solo per periodi limitati. La sua portata è stata interpretata in seguito con l’attribuzione di significati che non aveva dall’inizio. Intorno al 1300 nessuno avrebbe immaginato che le alleanze tra modeste cittadine e valli alpine poco popolate avrebbero sostituito l’ordine divino dell’aristocrazia e del Sacro Romano Impero.
Cosa prevale: l’apertura o la chiusura verso l’esterno?
(AH) Le relazioni e il confronto con l’esterno sia in ambito politico sia economico, sono la somma dell’accostamento fra le due forze dell’isolamento e dell’integrazione, che convivono. In ambito economico, la Svizzera ha poche materie prime, ma già in epoca moderna ha sviluppato un modello di impresa basato sull’innovazione e sulla manodopera qualificata per produrre beni di successo sul mercato internazionale, nonostante gli elevati costi di produzione e di trasporto. Il mercato interno era troppo piccolo e industrie come quelle della seta, degli orologi e dei gioielli hanno da sempre prodotto per un piccolo segmento di lusso. Fin dall’inizio, dunque, l’industria dipende non solo dall’importazione di materie prime, ma anche dall’esportazione di prodotti finiti e semilavorati: per questo è stato necessario sviluppare strutture che facilitassero il commercio. Era indispensabile stringere accordi con le potenze dell’epoca, per ottenere e mantenere una serie di privilegi sui dazi e sugli oneri doganali. Le alleanze con Milano, la Spagna e la Francia risalgono al XV-XVI secolo, e sono state stipulate a più riprese perché gli Stati vicini hanno sempre avuto interesse a legare il più possibile a sé l’area dell’attuale Svizzera: per l’attraversamento dei passi alpini, per la disponibilità di truppe mercenarie e, in una certa misura, per il ruolo di un attore neutrale nelle guerre continentali. Significativa anche la vicenda delle terre ticinesi, soggette fino alla fine del Settecento alla signoria dei Cantoni confederati: alla separazione politica dalla Lombardia, creata dalla frontiera tracciata con la nascita dei «baliaggi italiani» fra Quattrocento e inizio Cinquecento, fa riscontro la continuità del legame culturale, e soprattutto il successo imprenditoriale delle maestranze e degli imprenditori in campo architettonico e artistico, esteso sull’intera Europa.
Negli ultimi due anni, in seguito al conflitto fra Ucraina e Russia, il nostro Paese si è confrontato con il significato del concetto di neutralità.
(AH) La nostra neutralità non va considerata un principio politico atemporale e immutabile: si è delineata come principio guida per la politica estera in circostanze particolari, e perciò non deve essere considerata a priori immune da cambiamenti. Viene spesso associata alla sconfitta di Marignano del 1515, che avrebbe indotto i Confederati a ritirarsi dalla scena delle grandi potenze europee, e al Congresso di Vienna del 1815. Ma nel Cinquecento e nel Seicento i Cantoni svizzeri rafforzarono i loro legami con le monarchie europee attraverso il servizio mercenario, e nel 1521 strinsero un’alleanza con la Francia, tanto che la prima dichiarazione formale di neutralità dei cantoni confederati venne elaborata solo nel 1674. Nel 1815, poi, l’accettazione e la fissazione nel diritto internazionale della neutralità armata (l’obbligo permanente di difendere le frontiere con le armi), ha rappresentato una forte limitazione della sovranità svizzera nella politica estera da parte delle grandi potenze europee.
Cosa significa l’espressione «la Svizzera è una Nazione di volontà»?
(AH) Nell’Ottocento mancavano le premesse per la costruzione di un’unità da inserire nel panorama degli Stati nazionali. In Svizzera non c’era un’unica lingua o cultura, né una sola confessione religiosa, né un’omogeneità etnica o una dinastia di regnanti in cui riconoscersi. Per questo nella seconda metà di quel secolo si è costruita la figura della «Willensnation», della Nazione fondata sulla forte volontà comune e sulla solidarietà che crea coesione e identità fra le diverse componenti. Così, si è data grande importanza alle ricostruzioni del passato, di una storia lunga, onorevole e costellata da crisi superate con successo, affinché tutte le componenti della nazione potessero guardare alla propria storia con orgoglio. Si è però trascurato di rendere esplicito l’influsso che le maggiori potenze europee dell’epoca hanno avuto nella creazione statale della Svizzera.
Anche la democrazia diretta appartiene al DNA del nostro Paese. Ma da meno tempo di quanto si è soliti pensare. Sbaglio?
(AH) Il diritto delle cittadine e dei cittadini di partecipare alle decisioni politiche e di avere l’ultima parola ha le sue radici nella Rivoluzione francese, e si è imposto con una certa fatica. Prima di essere introdotti a livello federale, dal 1830 i diritti popolari furono adottati da quasi tutti i cantoni, nei quali esisteva una lunga tradizione di democrazia assembleare: le Landsgemeinde e le assemblee di coloro che godevano dei diritti di cittadinanza. A livello federale, lo strumento del referendum per il controllo delle leggi decise dal Parlamento fu accolto nel 1874 nella Costituzione federale e il diritto alle iniziative costituzionali da parte del popolo fu integrato nel 1891. Per molto tempo la Svizzera è stata un modello di democrazia solo in misura limitata. Nei primi 123 anni di vita della moderna Confederazione la maggioranza della popolazione, le donne, fu esclusa dal diritto di voto, e nei primi decenni lo erano stati anche gli ebrei e i poveri. Almeno dal 1971, comunque, la democrazia diretta svizzera non è più un «Sonderfall» dal sapore ambivalente, quanto piuttosto un riferimento per lo sviluppo della democrazia moderna.
Il federalismo svizzero potrebbe essere applicato all’Unione europea?
(PO) Al di là delle possibili soluzioni legate agli assetti istituzionali, la considerazione delle vicende storiche di due realtà in contatto, ma differenti sotto molti aspetti, può evitare di immaginare che si possano semplicemente riprendere e copiare modelli in grado di funzionare sempre e ovunque. In Svizzera si è creato dapprima lo Stato federale ottocentesco, nel quale la cittadinanza era portata a considerarsi partecipe di un medesimo destino, mentre nell’Unione europea l’ordine è esattamente l’opposto: si cerca di stabilire una statualità attraverso l’omogeneizzazione economica, l’unione monetaria e il mercato unico, e di condurre così i singoli paesi ad avvicinarsi. È qualcosa di completamente diverso.