L’impronta elvetica attorno alla Piazza del Plebiscito

by Claudia

A Napoli, il Palazzo Reale da una parte e la Reale Basilica Pontificia dedicata a San Francesco di Paola dall’altra sono entrambe opere di architetti ticinesi: Domenico Fontana e Pietro Bianchi

Alle nove del mattino via Toledo è già piena di persone. È la via dello shopping di Napoli. E la strada che delimita i Quartieri Spagnoli dal centro storico e dalla zona mare. Ma via Toledo è anche la via che dobbiamo percorrere per arrivare a quella che è la nostra destinazione: Piazza del Plebiscito.

Dalla stazione centrale di Napoli basta prendere la linea 1 della metropolitana, fermarsi alla stazione Toledo (che il quotidiano britannico «The Daily Telegraph» ha definito la stazione più bella d’Europa) e percorrere ottocento metri in direzione sud per giungere nella più importante piazza della città.

Una coppia di turisti è appena arrivata. I due giovani si spostano al centro del largo per ammirarne la maestosità: 25mila metri quadrati riempiti da sole due statue equestri. Fa quasi impressione tutto quello spazio. A rendere davvero speciale questo luogo sono però due delle quattro costruzioni che la circondano: il Palazzo Reale da una parte e la Reale Basilica Pontificia dedicata a San Francesco di Paola dall’altra.

La coppia di turisti probabilmente non sa (d’altronde neanche tra i napoletani è un fatto molto noto) che entrambi quegli edifici sono opera di architetti ticinesi. E più precisamente, il Palazzo Reale è stato progettato dal melidese Domenico Fontana, mentre l’iconica chiesa che sorge di fronte al Palazzo e il suo straordinario colonnato – sono opera del luganese Pietro Bianchi. I due non si sono mai incontrati perché vissero e operarono a Napoli in epoche diverse: il primo all’inizio del Seicento, il secondo oltre due secoli dopo.

Superata l’emozione iniziale, i due turisti si dirigono verso la Chiesa e il suo colonnato. Noi andiamo nella direzione opposta. In un angolo della facciata di Palazzo Reale, lunga 160 metri e caratterizzata dalla presenza delle statue dei principali regnanti di Napoli, c’è una lapide che ricorda l’autore di quell’opera: Domenico Fontana.

Nato a Melide nel 1543, Fontana è stato il primo della scuola ticinese a salire alla ribalta dell’architettura europea. Nel 1563 si spostò a Roma dove divenne progettista di riferimento di Papa Sisto V. In quegli anni lavorò alla realizzazione di numerose opere. Tra le altre: la facciata su Piazza Montecavallo di Palazzo del Quirinale, la Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, l’Obelisco di Piazza San Pietro e i Palazzi Apostolici in Vaticano.

La qualità della sua opera e il favore di Sisto V attirarono verso di lui tante invidie. Così alla morte del suo protettore, per Fontana iniziò un periodo difficile che lo portò, nel 1593, ad accettare la chiamata in un’altra capitale della Penisola: Napoli. Il viceré spagnolo, Conte di Miranda, lo volle in città per farlo lavorare al riassetto urbanistico di Napoli. Prima del Palazzo Reale, quindi, diede forma al quartiere che oggi sorge sul suo fianco e che affaccia sul mare. Opera di straordinario valore ingegneristico ma di poco conto rispetto all’enorme qualità artistica del ticinese. Così a fine secolo il viceré decise di commissionare a Fontana anche la costruzione di un enorme palazzo che avrebbe dovuto ospitare il Re di Spagna. La prima pietra del Palazzo Reale partenopeo fu posata nel 1600.

Oggi Palazzo Reale ospita la Biblioteca Nazionale e un Polo Museale. L’attuale struttura risente di numerose risistemazioni avvenute durante i secoli ma è ancora possibile scorgere le intuizioni di Fontana. A partire dai portici, oggi murati ed entrati nel corpo del Palazzo. Una scelta architettonica innovativa per l’epoca, i portici furono voluti da Fontana per permettere ai napoletani di passeggiare ai piedi del Palazzo anche in caso di tempo avverso.

Ciò che invece non fu mai costruito fu il sistema di tre cortili che Fontana progettò in corrispondenza dei tre ingressi principali. Ne fu costruito uno solo, quello centrale. Tra i motivi per cui il Palazzo non fu eretto esattamente come disegnato dall’architetto ticinese fu la morte di quest’ultimo a soli sette anni dall’inizio dei lavori. Fu sepolto, come da sua richiesta, nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi nel centro storico di Napoli.

Lasciato alle spalle il Palazzo Reale, dirigiamo lo sguardo verso la Basilica disegnata da Pietro Bianchi. A camminare verso il colonnato si viene pervasi dalla strana sensazione di aver già visto quell’opera anche se a Napoli non ci si è mai messo piede prima di allora. È una sensazione comune e, a ben vedere, giustificata. Perché nel progettare la chiesa napoletana, il luganese si ispirò a due grandi opere architettoniche romane: l’interno della Basilica è una riproposizione del Pantheon della Città Eterna, mentre il colonnato è una rivisitazione di quello di Piazza San Pietro in Vaticano. Due opere di per sé straordinarie che messe insieme rendono quel luogo incredibilmente emozionante. Deve averla pensata allo stesso modo Ferdinando I di Borbone perché quando vide il progetto disegnato da Bianchi decise di andare contro le sue stesse decisioni precedenti e affidare al ticinese la costruzione della chiesa.

È il 1816 quando Ferdinando IV di Borbone torna a Napoli ormai liberata dai francesi, unisce il Regno di Sicilia e quello di Napoli e si incorona Ferdinando I, Re delle Due Sicilie. Quando Ferdinando rimette piede nel Palazzo Reale disegnato da Fontana trova la piazza che vi sorgeva di fronte completamente diversa da come l’aveva lasciata. I francesi avevano dato inizio a un’opera di riqualificazione urbana dell’intero Largo. Ferdinando I però volle cancellare ogni segno del passaggio dei francesi e indisse un concorso per la progettazione di una nuova chiesa che doveva nascere proprio di fronte al Palazzo Reale e che doveva rappresentare un ex voto per la riconquista del regno.

Furono in tanti a partecipare. Ma tra questi non c’era il nostro Pietro Bianchi che fino ad allora aveva lavorato solo come archeologo. Nato a Lugano nel 1787, Bianchi si trasferì presto a Roma per lavorare agli scavi archeologici della città. Il ticinese non aveva mai lavorato alla progettazione di un edificio, ma decise comunque di buttar giù un progetto. Quando lo scultore Antonio Canova, suo amico personale e artista particolarmente apprezzato a Corte, vide il progetto di Bianchi decise di presentarlo al Re Ferdinando che se ne innamorò e, fregandosene del concorso che aveva indetto, assegnò d’imperio la realizzazione della chiesa al ticinese.

Superiamo le colonne ed entriamo all’interno della chiesa dove le similitudini con il Pantheon romano diventano del tutto evidenti. In effetti nel suo progetto Bianchi decise di limitarsi ad aggiustare i piccoli errori negli allineamenti che gli antichi commisero all’epoca della costruzione del Pantheon di Roma lasciando il resto inalterato. Lo stesso tentò di fare con il colonnato al suo ingresso. Ma riproporre fedelmente quello di Piazza San Pietro a Roma era un’impresa quasi impossibile date le dimensioni e la posizione. L’unica cosa che poteva fare Pietro Bianchi era disegnare qualcosa il più possibile simile al capolavoro di Bernini.

Usciamo dalla chiesa-Pantheon e torniamo nel centro della piazza, ormai piena di turisti, ai quali una guida chiede: «Cosa vi ricorda il colonnato alle mie spalle?». «San Pietro», risponde uno, a conferma del buon lavoro fatto da Pietro Bianchi.

Il potere della Regina Margherita

Se vi trovate a passeggiare in Piazza del Plebiscito e vedete qualcuno che cammina bendato circondato da amici o parenti divertiti, state tranquilli: la persona in questione sta solo mettendo alla prova, per l’ennesima volta, il potere della Regina Margherita.

Tutto ebbe inizio diversi secoli fa, quando la sadica sovrana, annoiata dalla vita di Corte, trovò un passatempo che vedeva protagonisti i tanti prigionieri accalcati nelle galere di Napoli. Fece arrivare loro un messaggio: trattandosi di una regina buona aveva deciso di concedere loro, una volta al mese, la possibilità di guadagnarsi la propria libertà ma solo a patto di riuscire a percorrere bendati in linea retta i circa 170 metri che intercorrono tra il portone principale del Palazzo Reale di Domenico Fontana e le due statue equestri di Carlo III di Borbone e di Ferdinando I che sorgono proprio lì di fronte e distanti tra loro 40 metri. Un’impresa da niente, insomma. Eppure i prigionieri chiamati a compiere l’impresa finivano, come smarriti, a camminare in tondo senza mai raggiungere la meta. Tutta colpa di Margherita che, non volendo affatto concedere la liberà ai suoi prigionieri, lanciò una maledizione che impediva a chiunque di camminare in linea retta lungo la piazza.

Si tratta di una delle tante leggende partenopee che da secoli vengono raccontate ai bambini e che i napoletani si divertono a raccontare ai turisti sfidandoli a mettere alla prova il potere di Margherita (non si è mai capito, a dire il vero, chi fosse questa fantomatica sovrana). E a guardare le performance decisamente scadenti di chi ci prova, pare che la maledizione della Regina sia ancora perfettamente in azione.

Ma Margherita e il suo potere c’entrano poco. La verità è assai meno fantasiosa e legata a due variabili principali. La prima è la conformazione della pavimentazione della piazza. Una pavimentazione molto irregolare fatta di diversi punti in salita seguiti da diversi punti in discesa e formata dal tipico sanpietrino partenopeo. La seconda variabile è legata all’estensione della piazza. Con i suoi 25mila metri quadrati di superficie, Piazza del Plebiscito rappresenta una delle più ampie piazze d’Italia.

A occhi bendati si perdono del tutto i punti di riferimento visivi e dunque non resta che fare affidamento ai propri piedi. Ma l’ampiezza della piazza e la conformazione della sua pavimentazione rendono tutto difficilissimo. Il risultato? Sebbene ci si posizioni perfettamente al centro dello spazio tra le due statue equestri, anche concentrandosi al massimo per mantenere un tragitto rettilineo, se bendati si finisce inevitabilmente per girare in tondo. Come i poveri prigionieri di Margherita.

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