Stefania Beretta, specializzata in fotografia d’architettura, ha sviluppato la propria arte grazie a molti incontri preziosi
Ricamare le proprie foto con fili coloratissimi e invisibili che legano e collegano, dall’inizio, tutte le cose del mondo tra loro, portando avanti la nostra esistenza. È questo uno degli intenti manifesto del percorso artistico e professionale di Stefania Beretta, fotografa ticinese con approdi internazionali, nostra odierna interlocutrice che ci accoglie nella sua luminosa casa studio di Verscio, nelle Terre di Pedemonte. Circondati da innumerevoli immagini e libri, davanti a un buon caffè, iniziamo a svolgere il filo colorato del suo lungo cammino attraverso la fotografia. E la vita.
Un percorso costellato da tanti incontri importanti, cruciali, decisivi, iniziato tanti anni or sono quando, ancora quindicenne, scoprendo l’esistenza del mestiere di fotografo capisce che sarà la sua strada: «Sono quelle consapevolezze che stanno dentro di noi, di cui non siamo mai veramente coscienti, ma quando è il momento, escono con tutta la loro forza». La verità scaturita da tale presa di coscienza l’accompagnerà sostenendola lungo tutto il percorso professionale e artistico che da lì va a cominciare.
Ottiene un diploma federale, si specializza in fotografia d’architettura e inizia a lavorare come fotografa dipendente. Un’esperienza, questa, che si esaurisce in pochi mesi. Licenziatasi, decide di partire per un viaggio in Sud America. Col senno del poi, come ci racconta, si rende conto che la fotografia le ha anche permesso di realizzare il suo sogno di viaggiare, un sogno che vive a occhi aperti fin dall’adolescenza.
Innumerevoli saranno infatti i viaggi che andrà poi ad affrontare negli anni, per realizzare lavori su commissione o per ricerca personale. Nelle Americhe, in Europa e soprattutto in India, Paese dal quale è stata fortemente attratta e dove ritornerà regolarmente per trent’anni: «Questo Paese mi ha dato la conoscenza di una nuova cultura, che però sentivo molto, molto vicina. Era come se fosse qualcosa che conoscessi già. Ha influito molto nella mia persona e mi ha anche regalato una conoscenza intima, spirituale, di me stessa». Oltre a tante bellissime immagini.
Tornata dal Sud America, era il 1979, apre uno studio fotografico. Non senza difficoltà, all’epoca quell’ambito di lavoro era ancora prettamente maschile. Un primo incontro importante, dal punto di vista professionale e umano, Stefania lo ha con l’architetto Aurelio Galfetti, incontro che le permetterà di seguire e documentare gli ampi lavori di restauro del Castelgrande di Bellinzona. Le pubblicazioni che usciranno a seguito di questi lavori la metteranno in luce, consentendole così di ottenere ulteriori e rilevanti lavori e pubblicazioni, sia in Ticino sia Oltralpe.
A questo campo d’attività accompagna quello della riproduzione d’arte. Nel momento in cui, dopo anni, comincia a scemare il lavoro e il suo interesse per la fotografia d’architettura, Stefania – in virtù di quella irrevocabile forza che srotola i nostri fili – conosce Reto a Marca, mercante d’arte internazionale, con cui stabilirà, oltre a un’importante relazione di lavoro, anche una profonda e duratura amicizia. Con Reto a Marca, compiendo innumerevoli viaggi, Stefania avrà modo d’incontrare e confrontarsi con importanti artisti della scena internazionale e i loro lavori, da Arman a Daniel Spoerri, a Mimmo Rotella, Not Vital, Zoran Musič, César e così via.
Questi incontri e l’energia che sprigionano, faranno da detonatore per quello che diventerà il suo percorso creativo con la fotografia. Oltre alla riproduzione dei loro lavori, Stefania realizzerà parecchi ritratti – campo per il quale in Ticino è poco conosciuta. Ma soprattutto queste esperienze la faranno crescere facendole scoprire una parte sua di creatività: «Grandi nomi, begli incontri, molto stimolanti, molto arricchenti. Era anche una crescita mia. Attraverso questi incontri, attraverso questo vedere, attraverso tutto questo scambio, sentivo una grande crescita, interiormente, ma anche professionalmente».
Durante una residenza di sei mesi a Parigi, negli anni Novanta, trova in un mercatino una macchina fotografica Polaroid di medio formato, apparecchio che oltre all’immagine istantanea positiva rilascia anche il suo negativo. Con questo gioiellino – quasi un giocattolo con cui dare sfogo alla voglia di fotografare per poi poter entrare in un rapporto fisico, diretto, con le immagini fatte, sviluppando e manipolando il negativo – realizza un lavoro su Parigi in bianco e nero, in seguito pubblicato in Ticino da Matteo Bianchi col titolo Paris noir. Durante questo soggiorno, realizza un’altra intensa serie d’immagini nella stanza in cui risiede (serie entrata a far parte del libro Rooms), di natura intimistica, autobiografica, in cui la stanza con le tracce di chi vi era già passato fanno da soggetto ma anche da sfondo a ritratti di sé e della compagna Giangi. Sempre in bianco e nero, com’è poi stato il caso per la gran parte del suo lavoro d’autore. Eccezioni le troviamo nelle serie Trop, After Monsoon e parte di In Memoriam che, per loro natura, non potevano esser fatte altrimenti che a colori – andate a vedere tutti questi e altri lavori nel suo sito (stefaniaberetta.ch), dove troverete anche dei video che descrivono il suo approccio pratico e poetico alla fotografia. Poetico, sì, perché lo sguardo fotografico di Stefania è intriso di poeticità e di una forte sensualità, con cui sublima attraverso l’apparecchio fotografico la realtà, il suo modo d’incontrare e vivere il mondo.
Ma parte in causa nel determinare la sua poetica sta anche, come già accennato, nel rapporto fisico che da lungo tempo Stefania intrattiene con le immagini da lei realizzate. Nel senso del suo lavorarle, manipolarle, andare oltre lo stretto – seppur essenziale – lavoro eseguito con la macchina fotografica: «Sono sempre stata una fotografa un po’… poco ortodossa. Sì, c’è stato un periodo in cui sicuramente le mie fotografie erano fotografie. Però ho cominciato presto a graffiare i negativi, a bruciarli e lavorare con la matita grassa, col collage, sulle immagini. E quindi è stato naturale arrivare anche al cucito sull’immagine».
Nel suo percorso, questo approccio va di pari passo con l’emanciparsi da un procedere programmatico, orientato dal concetto. È un liberarsi abbracciando l’azione condotta vieppiù dall’istinto, dall’inconscio, dall’attrazione verso la Natura, lasciandosi scivolare lungo quei fili colorati che intessono l’universo.
Tanto altro vi sarebbe da dire sul lavoro, gli incontri e il pensiero di Stefania Beretta, ma lo spazio della pagina non ci concede di andare oltre. Terminiamo allora con quest’ultima citazione, in cui Stefania riassume, quasi a dichiarazione estetica, il rapporto che ha con la fotografia: «Dico sempre che la mia fotografia è filosofia visuale, vi rientrano le idee, l’intuizione, l’unione con l’universo, pesco nel mio immaginario e nella mia memoria inconscia».