Storia di un’autobiografia femminista
Cose che non voglio sapere. Autobiografia in movimento, di Deborah Levy (nella foto) edito da NN con la traduzione di Gioia Guerzoni e la prefazione di Olga Campofreda è il primo dei tre volumi dell’autobiografia della grande scrittrice britannica. Il racconto di sé, della propria interiorità, anche sotto forma di autofiction, è tradizionalmente associato alle donne: con quest’opera, allora, seppur riluttante, Levy, classe 1959, nata a Johannesburg, si inscrive in una lunga tradizione che la precede. Il fatto è che ci sono modi e modi di raccontare di sé e che l’evidenza che le scrittrici, come gli scrittori del resto, pratichino l’autobiografia non significa automaticamente che lo facciano tutte adottando lo stesso stile, come in qualche modo, invece, viene dato per scontato.
Il primo dei romanzi di questa trilogia si apre con la consapevolezza della scrittrice di essere perduta: Levy racconta che nella primavera in cui ha cominciato il suo testo le capitava, ogni volta che si trovava su una scala mobile, di cominciare a piangere. È da questa presa di coscienza che deriva la decisione di allontanarsi davvero, prendere un aereo e andare a Palma di Maiorca, nella piccola pensione in cui è già stata altre volte.
La prima cosa che si impara, dopo neanche venti pagine di lettura, è che nel momento in cui ci si sente smarrite, non ha nessun senso provare a ribellarsi a tutti i costi e costringersi a trovare una collocazione nel mondo, ma che è meglio tentare di adeguarsi alla confusione. Non si tratta di un facile consiglio come se ne possono trovare negli articoli di psicologia online, perché Levy non solo non sottovaluta la difficoltà di accettare la propria condizione, si sofferma anche su quanto siano indicibilmente difficili le conseguenze che ne derivano, una volta che si è smesso di ribellarsi al caos.
A Palma di Maiorca Levy si mette a scrivere, ma è durante una cena con il proprietario cinese dell’alimentari dove è andata a comprare della cioccolata, nella speranza che le faccia lo stesso effetto che ha sulla personaggia di Bernarda nel romanzo di Gabriel Garcia Marquez Dell’amore e di altri demoni, che prende avvio il racconto della sua vita: «Se credevo di non pensare al passato, il passato pensava a me».
Levy scrive della sua infanzia a Johannesburg a partire dal giorno in cui, dopo aver fatto con lei un pupazzo di neve, anche per celebrare l’eccezionalità del freddo in Sudafrica, suo padre viene arrestato per opposizione all’apartheid. Il racconto prosegue con il suo temporaneo trasferimento a Durban dalla madrina che possiede un pappagallo azzurro, Little Boy, e ha una figlia adolescente, Melissa, a cui la bambina si affeziona subito per via dei capelli cotonati, degli occhi truccati, del fatto che, come la Barbie, è «una persona di plastica», vale a dire l’unico genere di umanità di cui secondo lei ci si possa fidare. In Sudafrica non solo suo padre è stato incarcerato e torturato, tutti vengono puniti per qualcosa, anche i bambini e le bambine, mentre chi non è bianco viene bandito: dalla spiaggia, dalla scuola, dalla vita. L’eccezionalità di questa parte del testo è la capacità che Levy ha di raccontare a partire dal punto di vista di una ragazzina: leggendo le pagine dedicate agli anni in Sudafrica non ci si trova di fronte al racconto di ricordi di una adulta, ma in compagnia di una piccolina che all’improvviso ha perso suo papà, non riesce più a parlare ad alta voce e vorrebbe tanto che Little Boy fosse libero dalla sua gabbia.
Se è vero, come è vero, che il genere dell’autofiction e dell’autobiografia è particolarmente praticato dalle donne, anche se sarebbe più corretto dire che è un genere molto frequentato da chiunque scriva, «mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino a oggi la grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore» precisa Nietzsche. Non solo di questo romanzo vanno notati lo stile e il talento. In questo testo il discorso narrativo, specialmente nella prima parte, è intessuto di riferimenti ad altre scrittrici, Levy dà quindi voce a quella che la critica letteraria definisce intertestualità. Riporta la convinzione di Marguerite Duras che le scrittrici debbano essere egoiste e di come la grande autrice francese fosse solita portare «occhiali enormi e aveva un ego enorme, ma proprio il suo ego smisurato l’aveva aiutata a schiacciare le illusioni sulla femminilità sotto i tacchi delle scarpe». Riflette poi sulla necessità di non scrivere con rabbia a partire da una citazione di Virginia Woolf e ricorda a sé stessa e alle lettrici come «il più delle volte ci sentiamo in colpa per tutto». Di certo, però, lei non ha nulla di cui rammaricarsi per aver ceduto al fascino dell’autobiografia.