Cara Silvia,
sono una nonna che ha fatto, come te, il femminismo degli anni Ottanta. Ma ora sono sconcertata dagli esiti e mi chiedo: dove abbiamo fallito?
È vero che i giovani padri sono molto meglio dei loro genitori, che collaborano, aiutano, sostituiscono quando è il caso le loro compagne. Ma c’è qualcosa che non va, come rivela il malessere della mia ultima nipote, Camilla, di 15 anni che non vuol crescere: si rifiuta di andare a scuola e, rinchiusa nella sua cameretta, vuole essere soltanto lasciata in pace. Veste di nero e ultimamente abbiamo scoperto che si tagliuzza le braccia. Inutile proporle delle psicoterapie, chiede solo di lasciarla in pace. I genitori non sanno più cosa fare e io, riflettendo sulla mia vita, ti chiedo: mi puoi aiutare a comprendere quando si è spezzato il filo rosso della trasmissione generazionale al punto che le nostre nipoti sono diventate delle aliene? Grazie sin d’ora. Con sorellanza, Franca P.
Cara Franca, non ti disperare. La «Rivoluzione più lunga» prosegue nelle radici e prima o poi riemergerà.
Facciamo un passo indietro e ricostruiamo il percorso delle rivendicazioni femminili partendo dagli inizi del Movimento. Quando le prime femministe si riuniscono, a metà degli anni 70, molti diritti civili, come il voto, sono già stati acquisiti, diritti sacrosanti eppure insufficienti per superare profondi squilibri di genere. Tutto il peso del lavoro domestico, dell’accudimento dei figli e della cura degli anziani gravavano ancora sulle spalle delle donne. I valori tramandati dalla società patriarcale, considerati naturali e necessari, venivano sofferti ma non contestati. Si trattava di essere come gli uomini senza riconoscere le differenze tra i due sessi.
Sarà la generazione successiva, quella che ha partecipato al ’68, a interrogarsi sul da farsi per cambiare radicalmente la condizione femminile. La prima mossa è stata partire da sé, dal nostro corpo, dai bisogni negati, dai desideri inespressi. Una riflessione che il Movimento delle donne tradurrà, nell’onda di trasformazioni epocali, in conquiste collettive quali il divorzio, l’interruzione volontaria della gravidanza, l’orgoglio gay. Non si trattava più di essere come gli uomini, ma di declinare la differenza nella eguaglianza. Una rivendicazione che è rimasta a metà anche perché le nostre figlie erano convinte, nonostante evidenti disparità, di aver ottenuto l’essenziale. E allora «ognuna per sé e Dio per tutte», in conformità agli incentivi di una società individualistica e competitiva.
Ma, a quanto pare, quel modello non convince le nostre nipoti che non trovano nella società e nella famiglia punti di riferimento, motivi di crescita, incentivi al futuro. Di qui tanti casi, come quello di tua nipote, di disagio, di malessere, di fuga dalla realtà e conseguente caduta nelle trappole della Rete. Per gli psicoterapeuti si tratta di problemi nuovi e molto più gravi rispetto alla contestazione precedente. Non per questo il femminismo deve dichiarare bancarotta.
Riprendiamoci il filo rosso che collegava le generazioni precedenti. Forse il modo migliore potrebbe essere quello di riallacciare in termini nuovi il dialogo madre-figlia. Non nel chiuso della famiglia, ma nella comunità, utilizzando istituzioni storiche come il Movimento AvaEva (si veda in proposito un documento ricco di riflessioni e di stimoli quale Percorsi di donne educazione e calori. Confronti e dialoghi intergenerazionali) e Nascere Bene, una iniziativa fondamentale in tempi di inverno demografico e di smarrimento del senso e del valore di mettere al mondo. Le adolescenti e le giovani donne hanno bisogno di motivazioni, di immagini, di confronti per uscire dal narcisismo.