Medio Oriente, la musica che spaventa i regimi

L’ultima «condanna eccellente» risale a poche settimane fa. Agli arresti fin dal dicembre 2023, il cantante iraniano Amir Tataloo (il rapper dal corpo interamente tatuato) è stato infine sottoposto a sentenza: «Incoraggiamento della prostituzione presso i più giovani», «Propaganda contro la Repubblica Islamica» e «Diffusione di contenuti osceni attraverso canzoni e videoclip». Nelle prossime settimane, il Tribunale Rivoluzionario di Teheran valuterà le istanze d’appello. Tataloo, già arrestato per «perturbazione dell’ordine pubblico» prima del suo trasferimento a Istanbul nel 2018 – da cui rientrò in patria, a passaporto scaduto, a fine 2023 – non è però l’unico caso di questo genere. Il «rap persiano» annovera stuoli di artisti perseguitati, arrestati e persino un caso di pena capitale (Tomaj Salehi). Accusa: mettere a rischio l’integrità del regime.

Un rischio con il quale la cerchia degli ayatollah ha cominciato a confrontarsi fin dall’avvio del nuovo millennio, quando dagli Stati Uniti l’hip hop americano ha iniziato a filtrare tra la gioventù più avvertita, anticonformista e dissidente del Paese: la quale, oltre a eleggere nel cantante Hichkas (del gruppo 021) il proprio «padre fondatore», ha letteralmente importato la «cultura del disagio» degli omologhi yankee. Una cultura che il regime di Teheran ha osservato dapprima con occhio clemente, non solo perché i primi pezzi dell’hip hop persiano erano ancora fortemente nazionalisti, contaminati di risonanze della musica tradizionale locale e risparmiati al linguaggio scurrile successivo, ma perché «il nemico del mio nemico è mio amico» e chi contesta il Governo americano è ipoteticamente meno «satanico» di chi comanda a Washington. Poi il genere ha però svelato il proprio carattere endogeno, rivelandosi il «rap persiano» anti-sistemico a prescindere dal regime osteggiato. Così Teheran ha cominciato a correre ai ripari e il duello conservatorismo/dissidenza si è inasprito. L’ennesimo: poiché il côté laïque, «progressista», che permea la società iraniana post-rivoluzionaria (1979) non ha in realtà mai cessato di opporsi al modello teocratico nemmeno nel periodo della più ferrea intransigenza (Komité o «Polizia etica»). Oggi tuttavia le condizioni sono diverse: il rap iraniano attinge, attraverso Internet, a una conoscenza del mondo impensabile fino a vent’anni fa. E l’afflato contestatario ha assunto dimensioni così ampie da mettere in crisi i più coriacei censori: che sia (prevalentemente) dall’estero o nella segretezza di redazioni e studi di registrazione clandestini in patria, il dissenso ha ampliato il proprio raggio come mai in precedenza. E la cronaca – che non di rado vede i rapper protagonisti – lo testimonia: quasi ogni manifestazione anti-regime, dai moti «anti-velo» del 2022 alla contestazione del presidente Raisi (morto di recente in un controverso incidente aereo), ha trovato la propria «colonna sonora» nelle canzoni dei rapper iraniani.

La storia ventennale del «rap persiano» si intreccia dunque, nella sua discografia, non di rado improntata a temi quali droga e sesso, alla storia del regime. E insieme al citato Tataloo, quattro nomi disegnano l’Olimpo della «resistenza metropolitana» promossa dai loro brani: Zedbazi (iniziatore del cosiddetto gangsta rap), Bahram Nouraei (incoronato dalla rivista Rolling Stones), Yas (uno dei pochi che ha potuto prodursi in concerti pubblici) e Toomaj Salehi (arrestato nel 2021 e nel 2022 e scampato fortunosamente a un tentato suicidio in carcere). Sarebbe però riduttivo intendere il rap mediorientale un fenomeno di pura marca iraniana. La specificità nazionalistica e anti-teocratica dell’hip hop iraniano ritrova infatti la propria matrice, dapprima nel Nord Africa (a partire dagli anni Novanta), poi nel mondo arabo, in quella natura «anti-sistema» che fu fin dagli esordi degli iniziatori statunitensi. Con alcune peculiari particolarità: come nell’Iran di Ahmadinejad, in prima istanza «anti-regime» stricto sensu i rapper non lo erano affatto. Lo attesta il delicato frangente delle cosiddette Primavere arabe, prima e durante le quali il rap mediorientale ha conosciuto diverse oscillazioni, che solo a rivoluzioni in corso si sono stabilizzate in una chiara linea di contestazione. Il famoso rapper egiziano Shaaban Abdel Rahim, per esempio, era un fervente apologeta di Mubarak. E soltanto con la sua caduta cominciò a calibrare in forma meno encomiastica le proprie rime.

Nel mondo arabo, come per i moti rivoluzionari, tutto origina in Tunisia. Il rapper Le Général diffonde un pezzo al vetriolo (Rayes LeBled) contro l’ex presidente Ben Ali, che in breve tempo diventa leitmotiv delle sollevazioni mediorientali. In Egitto imperversa, a partire dal 2012, il brano Not Your Prisoner degli Arabian Knightz (distorsione della parola «Knight», cavaliere), che esorta a una sollevazione sul «modello Tahrir» anche i giovani europei. Sempre in Egitto, nel corso della sollevazione, Rami Essam compone «Vattene!» (Irhal!), i cui versi vengono scanditi per esortare alla caduta del raìs. Gli si affiancano Mohammad Deeb e moltissimi altri, le cui risonanze hanno negli anni contaminato la musica e le società arabe da Casablanca a Damasco a Beirut. Meno ossessionati da tematiche materialistiche quali il denaro, il sesso e la droga dei loro omologhi americani e di parte di quelli «persiani» – ingredienti che avrebbero potuto confinarli nella mera imitazione – i rapper mediorientali sono pertanto una realtà che, come quella dell’Iran, si propone nelle vesti di assoluta originalità e talvolta di autentica unicità. Rispettosi della fede ma avversi alle teocrazie (siano esse degli ayatollah, dei mullah o degli stessi Fratelli Musulmani), moderano il turpiloquio ma non la veemenza anti-potere, accennano al sesso ma in rigoroso rispetto delle donne, attingono ai malesseri della vita di banlieue ma senza farne un’apologia del degrado. Sono quindi, anche nell’uso di strumenti tradizionali quali l’ud o la tabla, un singolare coacervo in cui la cesura tra passato e futuro è molto più politica che culturale. Ed essendo i loro temi di denuncia necessariamente «anti-sistemici» (corruzione, clientelismo, disoccupazione, autoritarismo), per veicolarli si affidano ai canali della nuova libertà giovanile: social network e mercato semiclandestino, suonerie e mp3, media «del sottosuolo» e reti varie. Strumenti della modernità per promuovere quella poetica della vita che si chiama, a queste latitudini, libertà di protesta.

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