Ai primi cinque, si aggiunge il kokumi, e qualcuno parla di altri potenziali quindici gusti ancora tutti da scoprire
Uno spettro si aggira per tutte le cucine europee: si chiama umami. Lo scoprii vent’anni or sono in Giappone ma, devo essere onesto, non lo capii. Mi sbagliai e alla grande.
Negli anni incominciò a comparire in molti libroni, sostanzialmente tecnici, di cucina, e alla fine incominciai ad approfondire il concetto, soprattutto aiutato da Manuela Vanni, con la quale lavoro «da sempre» e che è una bravissima fotografa di food e un altrettanto brava esperta di cucina, con una passione per quelle dell’Asia Orientale, soprattutto Corea e Giappone, – e con un «gusto», qualunque cosa voglia dire, più sviluppato del mio.
Iniziamo, quindi, dandone una definizione: l’umami è il quinto sapore dopo dolce, salato, amaro e acido, che sono i quattro classici. Ma non è un sapore netto, è legato al concetto di equilibrio. Quindi è giusto accostare la parola umami ad aggettivi come «pieno» o «saporito». Alla fine, significa solo una cosa, ovvero che ciò che stiamo mangiando è proprio buono. E non a caso la traduzione letterale del termine è «dal sapore piacevole».
Umami è un gusto indefinibile e ancestrale, che inconsciamente apprezziamo e ricerchiamo fin da molto tempo prima della sua «scoperta» ufficiale, avvenuta in Giappone nei primi del Novecento. La pienezza tipica dell’umami, infatti, è data dal glutammato monosodico, di cui il liquido amniotico materno è ricco. Chissà che il quinto sapore, allora, non abbia anche questa caratteristica di un ritorno inconsapevole allo stato primordiale…
Diversi sono gli alimenti che contengono il glutammato in purezza: i pomodori (e dunque l’amatissimo ketchup, da troppi bistrattato ma che quasi tutti utilizzano), i funghi, l’alga kombu, il glutine e i fagioli. Il resto dell’umami è il risultato di una fermentazione, come accade per la salsa di soia, la colatura di alici, il pesce azzurro essiccato, il katsuobushi (che si ottiene grattugiando in piccoli fiocchi i filetti di tonnetto striato, essiccato, fermentato e affumicato; è onnipresente nei piatti giapponesi, come da noi italiani il grana grattugiato, che non a caso è ricco di glutammato), il prosciutto crudo e, appunto, i formaggi stagionati.
Nella cucina d’Oriente il glutammato, esaltatore di sapidità, si usa in quasi tutte le preparazioni. Cosicché quasi tutto è umami. Se volessimo riprodurre lo stesso effetto qui da noi ci basterebbe aggiungere, come detto sopra, una grattugiata di grana ben stagionato o qualche schizzo di salsa di pesce ai nostri preparati, oppure usare un brodo dashi (a base di funghi, alga o pesce essiccato) per preparare zuppe e minestre o per stufare carni, pesci o verdure.
Di recente è stato scoperto anche un sesto gusto, il kokumi. Un altro termine nipponico per indicare la pienezza di sapore di certi crostacei e delle pietanze a base di amido di riso, aglio o cipolla. Come l’umami, anche il kokumi è un sapore basilare, cui corrispondono cioè dei recettori specifici collocati sulla lingua. Chissà cosa scopriremo negli anni a venire.
C’è chi, avendo studiato la complessità e la varietà dei recettori della lingua e del palato, sostiene che vi siano almeno altri quindici gusti ancora da scoprire! Forse li stiamo già cercando, proprio come abbiamo sempre cercato l’umami, sapore della nostra prima casa.
Prima ho accennato alla salsa di pesce, che ha la caratteristica di essere piuttosto salata, quindi va gestita con attenzione. Esiste però una salsa «sorella», quella di ostriche, che è altrettanto umami ma non è salata. Da quando l’ho scoperta, la uso moltissimo, quasi su tutto!