A otto mesi dal 7 ottobre la fotografia di Israele è più complessa che mai. L’esercito continua ad essere impegnato su più fronti e, mentre a Gaza proseguono le operazioni per sradicare la forza militare di Hamas, al confine con il Libano la situazione si fa sempre più tesa. Il lancio di razzi e droni esplosivi da parte di Hezbollah nelle ultime settimane continua a causare incendi, provocando gravi danni in Galilea e sulle alture del Golan, e la minaccia di un allargamento del conflitto a nord è sempre più concreta. A sua volta la Cisgiordania, stretta nella morsa dell’occupazione e vittima delle scorribande dei coloni, continua a essere una pentola in ebollizione che potrebbe scoppiare ogni momento in una terza Intifada.
Benché i vertici militari affermino che Israele è preparata per l’eventualità di un’escalation, la popolazione non lo è affatto. Stanchi, logorati, sfiduciati nei confronti delle istituzioni e preoccupati per il futuro, gli israeliani hanno riassaporato la speranza sabato 8 giugno, grazie al successo dell’operazione che ha riportato a casa vivi quattro ostaggi tra cui Noa Argamani, la cui immagine disperata mentre veniva portata a Gaza su una moto aveva fatto il giro del mondo. Tuttavia, neppure l’eroismo di Arnon Zamora, il trentaseienne ispettore capo dell’unità antiterrorismo Yamam, morto a Nuseirat nel corso dell’azione di salvataggio, è sufficiente per annullare la consapevolezza che solo la stipula di un accordo con Hamas potrà portare a casa gli altri circa 120 ostaggi che si stima siano rimasti. Ma Netanyahu non sembra affrettarsi verso la conclusione di una trattativa, al contrario si è prontamente materializzato all’ospedale Tel Hashomer per venire immortalato di fianco ad Argamani e ribadire la necessità di proseguire i combattimenti.
Nemmeno le dimissioni del ministro del Gabinetto di guerra Gantz hanno turbato il premier che, per guadagnare terreno e rafforzare la propria posizione politica, ha risottoposto ad approvazione la legge che garantirebbe agli uomini ultra-ortodossi l’esenzione dalla leva obbligatoria. Si tratta di un vero e proprio schiaffo all’Israele che sta portando sulle spalle il peso militare, economico ed emotivo di questa guerra. Adesso la palla è nelle mani della Corte suprema. Proseguono pertanto ogni settimana le manifestazioni che chiedono le dimissioni di Netanyahu e le elezioni anticipate, accanto a quelle a supporto delle famiglie degli ostaggi, a favore di un accordo di scambio e del cessate il fuoco. Altro tasto dolente sono le decine di migliaia di sfollati che, non potendo far ritorno alle loro case al nord e al sud del Paese, continuano a vivere negli alberghi o in soluzioni provvisorie lontani da tutto. Non sono pochi neppure gli israeliani che hanno scelto di lasciare il Paese a breve o lungo termine, come testimoniano le società che forniscono servizi di deposito per mobilio e beni di ogni genere. Nessuno riesce a fare programmi a lungo termine, ma che il dramma non si esaurirà in pochi mesi è cosa ormai chiara a tutti. Anzi, in una recente intervista per il podcast del quotidiano «Haaretz», l’ex direttore dell’intelligence militare, generale Aharon Ze’evi-Farkash, ha affermato che «Israele deve capire che la lotta per l’affermazione della propria esistenza potrebbe durare anche un centinaio di anni». Secondo Ze’evi-Farkash la minaccia più seria da scongiurare rimane comunque quella iraniana. Nonostante questo, sono in aumento anche le richieste di cittadinanza israeliana da parte degli ebrei stranieri che, spaventati dalle nuove ondate di antisemitismo, si sentono più sicuri in Israele che nel resto del mondo.
All’ombra della guerra continua a operare anche la censura che, per colpire attivisti e soprattutto palestinesi di cittadinanza israeliana, può contare sulla collaborazione della zelante polizia di Ben Gvir. Ma una delle note più tristi rimane quella degli atenei israeliani, dove molti studenti si sono uniti alle istituzioni per silenziare e allontanare docenti e studenti che esprimano critiche al sionismo o empatia nei confronti dei civili palestinesi vittime del conflitto. Il dolore e la violenza permeano lo spazio pubblico e si riflettono nelle lunghe liste d’attesa per i servizi di salute mentale che fanno del loro meglio per prestare assistenza ai soldati mutilati e post-traumatici, alle vittime e ai loro parenti, ma anche ai civili sfollati, depressi e ansiosi. Purtroppo, complici le narrazioni dei media, buona parte dell’opinione pubblica israeliana è ancora sostanzialmente indifferente ai diritti dei palestinesi, per non dire paradossalmente ignara delle loro effettive drammatiche condizioni, motivo per cui fatica a comprendere l’indignazione e la critica a Israele che vengono dall’estero, etichettandole troppo spesso come atti di antisemitismo.
Ciononostante gli attivisti israeliani sembrano dotati di pazienza e ottimismo per il futuro, e si aspettano una grande affluenza all’iniziativa per la pace che si terrà a Tel Aviv il primo luglio prossimo. Sarebbe auspicabile che anche in Europa si facessero avanti dei partner che, invece di ergere muri e rafforzare le tifoserie, promuovessero occasioni di riflessione e confronto costruttivo, rendendo gli atenei e gli spazi culturali dei luoghi sicuri dove confrontarsi senza timore.