Oltre quattrocento opere false disseminate in giro per il mondo, un tempestoso matrimonio con un artista narcisista ed esibizionista come Diego Rivera, spericolate avventure sentimentali, vere o presunte, con protagonisti del Novecento, dal rivoluzionario russo Lev Trotskij (o Leon Trotsky) alla fotografa Tina Modotti e alla leggendaria cantante Chavela Vargas.
A settant’anni dalla morte, avvenuta il 13 luglio del 1954, l’inossidabile fascino di Frida Kahlo ha superato la boa del terzo millennio, apparentemente invulnerabile ad avversità e contraddizioni che avrebbero schiacciato chiunque.
Paure, amori, inquietudine, dolore, Frida ha saputo rappresentare complessità e tormenti di un mondo femminile estremamente contemporaneo grazie soprattutto a una teatrale capacità di mettere in scena una vita da melodramma, passando disinvoltamente dal tormento dell’artista al ruolo più o meno credibile di militante rivoluzionaria per poi trasformarsi in icona pop.
Per farla rivivere sul grande schermo ci voleva un’altra messicana, Salma Hayek che la interpretò in Frida nel 2002 per poi rievocarla quest’anno con un costume ispirato alla Kahlo sul palco del concerto di chiusura del tour mondiale di Madonna a Città del Messico, che a sua volta aveva indossato in passato un corsetto ispirato a quello ortopedico della pittrice messicana. Omaggi non casuali legati alla sfrenata ammirazione, quasi una devozione, della pop star per eccellenza per chi, come e prima di lei, aveva saputo reinventarsi e ribaltare disinvoltamente ogni schema.
Il mito di Frida sembra ingigantirsi con il passare degli anni grazie a una straordinaria capacità di parlare a ogni generazione – uscendo dai confini, fisici e artistici, delle sue opere – e a una travolgente abilità di metabolizzare colori, emozioni e vissuto della straordinaria cultura popolare messicana. È lì che va ritrovata più che nei musei, in quegli angoli di Messico di cui si è nutrita la sua immaginazione, tra gli ex-voto delle chiese che hanno influenzato la sua pittura, nei mercati traboccanti di vita e colori, tra i «fabbricanti di sogni», gli artigiani che ancora oggi danno vita a un fantasmagorico universo di tessuti, terracotta e cartapesta, o a braccetto delle donne truccate da scheletri che indossano corone di fiori per celebrare il Dia de los Muertos, la più intima delle innumerevoli feste messicane, di cui avremo ancora modo di parlare.
C’è un luogo che sembra un frammento di cielo dove tutto questo ha preso forma, la Casa Azul annidata in una strada silenziosa del quartiere più intellettuale di Città del Messico, Coyoacàn dove il frenetico vitalismo della megalopoli sembra fermarsi un attimo per riprendere respiro. Il segreto per avvicinarsi a Frida senza essere travolti dal feticismo che da sempre la circonda è nascosto dietro un muro sfacciatamente blu elettrico, in un giardino popolato di enigmatiche statue precolombiane dove la padrona di casa si materializza tra fantasmagorici diavoli di papier-mâché; è solo una fotografia quasi sommersa dai fiori, ma la forza magnetica del suo sguardo è intatta.
L’atmosfera magica con cui Frida avvolgeva chiunque la incontrasse è sbocciata qui, dove nel 1907 Magdalena Carmen Frida Kahlo Calderòn nacque e nel 1954 morì, nella casa della sua famiglia e di suo padre, il fotografo Guillermo Kahlo, dove da ragazzina scrisse un diario, perduto e ritrovato molto tempo dopo, in cui raccontò il suo rapporto segreto con un’amica immaginaria sbucata da un altrettanto immaginario Inframundo, quello sotterraneo precolombiano. Un’amica molto importante che non dimenticò mai, al punto da dedicarle un quadro famoso, Las dos Fridas.
Oggi Frida è ancora qui, perlomeno le sue ceneri, raccolte in un’urna precolombiana in quello che era il «luogo sacro» simbolo della sua indipendenza e del suo sovrano disprezzo di ogni convenzione. Qui la sofferenza si trasformava in creatività. Qui ha ritratto ossessivamente il proprio corpo dilaniato dal terribile incidente che a diciotto anni le spezzò la spina dorsale costringendola a una vita di sofferenze. Qui ha vissuto con Diego Rivera, artista simbolo dell’arte messicana post-rivoluzionaria. «Era un tremendo opportunista, un comunista che lavorava per i capitalisti, governativo e antigovernativo nello stesso tempo. Con Frida poi si comportava mostruosamente, la trattava come una bambolina. Lei era molto più complicata perché aveva avuto una vita piena di sofferenza, era più una snob che una politica». Parole di un testimone oculare, Leo Matiz, uno dei più straordinari fotografi latino-americani e autore di iconici ritratti di Diego e Frida che abbiamo incontrato a Cartagena de las Indias in Colombia nel 1988, poco prima della sua morte.
Anni in cui Città del Messico era una delle capitali culturali del mondo e, nella Casa Azul e intorno a Frida, ruotavano rivoluzionari di professione in fuga da un’Europa preda del fascismo, artisti americani in cerca di esotismo, collezionisti d’arte, grandi scrittori e piccoli opportunisti, anarchici spagnoli e disperati. Lei seduceva tutti, avvolta in quei suoi scenografici abiti floreali che avevano eccitato persino i grandi sarti parigini, gli stessi indossati ancora oggi dalle Tehuanas, le indigene zapoteche dell’Istmo di Tehuantepec protagoniste di un matriarcato indigeno sopravvissuto in una terra di machisti inveterati. Frida li trasformava in una seconda pelle. Una magica corazza che la proteggeva dal mondo, come la Casa Azul, dove attorno al tavolo della cucina sedevano politici come Leon Trotsky, registi come Sergei Eisenstein e Luis Bunûel, o intellettuali come André Breton, che considerava Frida la «quintessenza della donna immaginata dai surrealisti».
Il suo regno però era al primo piano, nella camera da letto con il lettino bianco testimone di infiniti autoritratti e nello studio dove anni fa «per non disturbare i turisti» gli ingombranti ritratti di Stalin, Mao Zedong e altri leader comunisti hanno lasciato il posto a opere più innocue. Passando accanto alla sua prigione ortopedica, il busto dipinto con vivaci fiori colorati che indossò fino alla morte, pare di sentire l’odore di un delicado, i mitici sigari che fumava tra lo scandalo dei benpensanti dell’epoca. Poco più in là pare invece di vederla indossare uno dei suoi grandi rebozos, gli scialli indigeni, mentre si prepara ad andare a qualche manifestazione politica o artistica accompagnata da los Fridos, i suoi allievi-adoratori. Un clan di fedelissimi che si divideva in due gruppi difficilmente conciliabili, i «rivoluzionari» legati al suo interesse per i problemi sociali e i «borghesi», esteti o collezionisti d’arte. Un sovrapporsi di idee e correnti culturali che si riflette nell’esplosione di colori della Casa Azul, quasi parossistici ma ovattati da una strana atmosfera di intimità che provoca un senso di disagio ai visitatori-pellegrini ammessi a gettare uno sguardo indiscreto sulla quotidianità di Frida e Diego.
Intorno a questo ombelico di pietra blu si allarga un universo di cerchi concentrici legati a Frida: il Museo Dolores Olmedo che custodisce la collezione più importante di opere di Frida e Diego; il Museo Casa Estudio Diego Rivera y Frida Kahlo, due edifici funzionalisti che contengono i loro studi collegati solo da una passerella; il Museo de Arte Moderna che espone Las Dos Fridas e il Museo Diego Rivera Anahuacalli legato al progetto di donare le loro opere al popolo messicano.
A pochi isolati dalla Casa Azul un’incongrua falce e martello emerge tra le piante tropicali di un solitario giardino; segnala la tomba di uno dei protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre che trascorse gli ultimi anni della sua vita tra le mura di quella che oggi è la Casa Museo Leon Trotsky. Cercava di sfuggire ai sicari di Stalin, invano, perché venne assassinato proprio qui, in uno studio rimasto intatto da quel giorno che rievoca un claustrofobico clima d’assedio. Trotskij e la moglie Natalia avevano trovato asilo in Messico grazie a Frida e Diego, ma il tormentato rapporto di amicizia e passioni, politiche ma non solo, tra le due coppie si incrinò perché Rivera diventò un simpatizzante di Stalin e Frida ebbe una breve ma travolgente relazione con il rivoluzionario russo. Iniziato, almeno così pare, tra le piramidi di Teotihuacàn a poca distanza dalla capitale, il flirt andò avanti per alcuni mesi sotto il naso di Natalia, che non parlava inglese ma che alla fine diede il classico ultimatum al marito, e la storia finì lasciando un’influenza politica in alcune opere di Frida e un autoritratto con romantica dedica a Trotskji.
Frida si affaccia anche tra centinaia di protagonisti della tumultuosa storia messicana immortalati da Rivera in un imponente murale del Palacio Nacional, per secoli cuore politico del Paese; sulle pareti dell’antico collegio gesuita di San Ildefonso, invece, viene ritratta in versione rivoluzionaria mentre distribuisce le armi agli operai insieme a un’altra fiamma di Rivera, la fotografa Tina Modotti, a sua volta amica di Frida. Un luogo particolarmente simbolico perché l’edificio, al tempo sede della prestigiosa Escuela Nacional Preparatoria, fu lo sfondo del primo incontro tra la pittrice, studentessa di sedici anni, e Diego che stava realizzando uno di quei murales che avrebbero dovuto trasformare molti edifici pubblici in un gigantesco museo all’aperto per il popolo post-rivoluzionario.
Tra le stravaganti architetture indecise fra neoclassico e art nouveau di una prestigiosa sala da concerti, all’interno del Palazzo di Bellas Artes, nel 1954 venne invece celebrato il funerale di Frida, che proprio lì aveva spesso esposto le sue opere. Altri luoghi come la sede originale della scuola La Esmeralda, dove insegnò a lungo, o la Pulqueria la Rosita dove spesso riuniva i suoi studenti, oggi sono scomparsi, mentre resiste un’intoccabile istituzione, il Salòn los Angeles, la più antica sala da ballo della capitale, che vanta tra i suoi avventori Fidel Castro, Che Guevara, Garcia Marquez, Diego Rivera e persino una visita di Frida e Trotskji.
Capsule di un tempo che fu, perfette per raccontare un’artista capace di trasformare in creatività una surreale convivenza di Madonne di Guadalupe, candele per rituali non proprio ortodossi, pugili, rivoluzionari e venditori ambulanti. Tutti insieme in onore di Frida for ever.