India: ufficialmente abolita nel 1950, in realtà l’antica suddivisione sociale ha ancora un certo peso specifico nella vita politica
Tanti anni fa una vecchia adorabile signora di Benares, appartenente alla antica famiglia reale del Bihar, si sedeva ogni pomeriggio nel patio di casa sua. Vestita di impeccabili sari bianco candido inamidati alla perfezione e con accanto una scatola d’argento in cui teneva l’occorrente per preparare il paan (foglie di betel da masticare) mi raccontava storie della sua giovinezza mentre prendevamo il te. Quand’era ragazza, diceva, le donne della famiglia si facevano curare da una dottoressa inglese, una persona squisita. E però, mi raccontava la signora, la dottoressa non poteva toccare le pazienti a mani nude. In casa c’era una sedia che veniva adoperata soltanto per lei e, quando le offrivano il pranzo, i cibi venivano serviti su larghe foglie di banano che poi la dottoressa doveva personalmente gettare nell’immondizia. Entrare in contatto diretto con qualcuno di casta bassa o con un fuoricasta significava difatti, per le nobili signore, doversi poi sottoporre a noiosi e complicati riti di purificazione.
Secondo la tradizione induista, la popolazione indiana è suddivisa in un rigido sistema castale che comprende quattro principali categorie: la casta sacerdotale dei brahmini, la casta guerriera degli kshatrya, la casta mercantile dei vaishyas e quella servile degli shudra. Le prime tre sono considerate «caste alte», mentre gli appartenenti alla quarta sono considerati «di casta bassa». Ci sono poi i cosiddetti dalit, gli «intoccabili», considerati al di fuori del sistema castale e sono tutti coloro che svolgono lavori considerati «impuri»: i becchini, i macellai, le persone incaricate della pulizia delle latrine ma anche, ad esempio, i conciatori di pelli. Per inciso, sono tecnicamente considerati fuoricasta anche tutti gli stranieri e i non appartenenti alla religione induista. La casta più alta, i brahmini, è la casta sacerdotale a cui in origine era vietato svolgere qualunque tipo di lavoro o di occupazione terrena. I brahmini dovevano vivere più o meno delle offerte dei fedeli, e la figura del «povero brahmino» disprezzato da alcuni per la sua povertà oppure onorato da altri è tradizionale in tutta la mitologia indiana.
Re e guerrieri, la classe dominante, appartenevano agli kshatrya: coloro che governano e combattono ma che spiritualmente sono un gradino sotto ai sacerdoti. Nelle mani della casta mercantile, oltre che in quelle dei sovrani, era concentrata la ricchezza terrena. I servi avevano il compito di provvedere ai bisogni delle due caste precedenti, kshatrya e vaishya. L’impurità dei fuori casta, e il loro essere obbligati a vivere ai margini delle città e dei villaggi derivava dalle funzioni esercitate e aveva motivi essenzialmente igienici: cadaveri ed escrementi rischiavano di contaminare l’acqua e di danneggiare quindi tutta la comunità.
La divisione in caste, nata diversi millenni fa per razionalizzare e stabilire in qualche modo un ordine sociale, non ha nulla a che vedere, al contrario di quanto si tende a pensare in Occidente, con la ricchezza o con la posizione sociale degli individui. Per spiegarlo in modo terra terra: negli anni scorsi l’India ha avuto un presidente dalit, cioè intoccabile. Eppure, il più povero dei poveri brahmini di villaggio non avrebbe mai e poi mai adoperato le sue stesse stoviglie o diviso un pasto con lui. La ricchezza si acquisisce, la classe sociale si cambia, ma non è possibile cambiare la propria casta di appartenenza.
Il sistema castale è stato legalmente abolito nel 1950 dalla Costituzione ma, di fatto, la questione delle caste gioca tuttora un ruolo cruciale in ambito politico e smuove, durante le elezioni, un notevole numero di voti.
La Costituzione indiana, figlia delle concezioni socialiste di Nehru e della visione romantica di Gandhi degli harijaan, i «figli di Dio» attribuisce di fatto un certo numero di privilegi ai gruppi percepiti come svantaggiati. E prevede difatti quote riservate nella pubblica amministrazione, nell’ammissione alle università statali e via dicendo, per le caste inferiori, per i fuori casta, per le popolazioni tribali, per le etnie minoritarie e per le religioni minoritarie. Il che crea a volte, come succede con la famosa DI (Diversity and Inclusion) nelle università e nelle aziende americane, anche una serie di corto circuiti facilmente intuibili se si tiene presente che casta, etnia o religione non hanno alcun rapporto con il reddito degli individui. E se si tiene presente che nell’India del ventunesimo secolo certe abitudini e certe regole di stampo religioso sono quasi del tutto scomparse anche e soprattutto a livello individuale.
Le società cambiano, e con loro cambiano costumi e credenze millenarie. La nobile signora di cui sopra, quella che mi raccontava storie della sua giovinezza che sembravano uscite da un romanzo, la signora che non poteva essere toccata da una dottoressa occidentale e quindi «fuoricasta» mi ha aspettato una volta sveglia fino a mezzanotte, nella notte più drammatica della mia vita.
Mi aspettava con un bricco di té e un dolce, e mi ha abbracciato stretta anche se io, straniera, ero non solo «fuoricasta» ma «impura» perché stavo tornando dall’aver cremato sulle rive del Gange il grande amore della mia vita. Lei era molto anziana e fragile, e so perfettamente che, dopo avermi abbracciata e consolata, doveva sottoporsi a quell’ora della notte a lavaggi e rituali di purificazione. Ma mi ha abbracciata lo stesso. E io, io non l’ho mai dimenticato.