Incontro con la coreografa svizzera, ospite attesa della seconda edizione di Lugano Dance Project da poco conclusa
La personalità e la classe di Cindy Van Acker, i suoi paesaggi intimi, cosmici e infiniti, le sue coreografie attraggono e conquistano con il fascino del gesto, del movimento, con il rigore compositivo dell’essenzialità. Il suo rigore è potente quanto la forza espressiva che si sprigiona dalle coreografie, capolavori che da oltre vent’anni la vedono protagonista alla continua scoperta di nuovi orizzonti.
Belga di nascita e svizzera d’adozione, Cindy Van Acker è una delle coreografe più in vista sul piano internazionale, da oltre vent’anni un riferimento per l’affermazione della danza contemporanea nel nostro Paese che nel 2023 le ha assegnato il Gran Premio delle Arti sceniche/Anello Hans Reihnart.
Il palco luganese del LAC ha recentemente ospitato Quiet Light una sua nuova produzione inserita in prima assoluta nel cartellone della seconda edizione di Lugano Dance Project, manifestazione biennale quest’anno dedicata al dialogo fra la danza e gli spazi architettonici. La rassegna si è da poco conclusa con successo e ha richiamato numerosi operatori del settore venuti per scoprire le nuove produzioni firmate da prestigiosi nomi della danza contemporanea chiamati ad esprimersi sul tema.
Ma il nome di Cindy Van Acker era quello più atteso.
Una luce silenziosa
Fresca di debutto, Quiet Light è un’affascinante incontro fra lo spazio vuoto del palcoscenico e il corpo. Un respiro architettonico suggestivo dove i movimenti di Stéphanie Bayle e Daniela Zaghini, fra le più fedeli danzatrici di Van Acker, trascinano gli spettatori in un poetico incontro con l’anima, la materia, la luce. È un lavoro intenso che fa emergere molti tratti della cifra stilistica dell’artista, in questo caso ispirata alle opere del pittore fiammingo Leon Spilliaert e sulla traccia delle parole di Paul Auster in cui si rispecchia uno stato d’animo: «Qualcosa accade e, dal momento in cui inizia ad accadere, nulla può più essere lo stesso. Qualcosa accade, altrimenti qualcosa non accade. Un corpo si muove, altrimenti non si muove. E se si muove, qualcosa comincia ad accadere. E anche se non si muove, qualcosa comincia ad accadere». Sulla scorta di emozioni condivise e al termine dello spettacolo, abbiamo incontrato la coreografa.
Perché una luce silenziosa?
Non è venuto subito. Dapprima desideravo lavorare con ombre di cui non necessariamente si deve vedere la fonte luminosa, volevo una luce che accarezzasse le presenze senza illuminarle tutto il tempo, come un passaggio che va e viene. Tutto il concetto iniziale è su qualcosa che può succedere ma che potrebbe essere altro: qualcuno aspetta, c’è movimento ma anche immobilità. È un cammino che a un certo punto si biforca e occorre fare delle scelte con una luce che passa da una parte mentre dall’altra no. L’idea del titolo è come una nuvola che passa, una luce naturale che arriva e cambia tutto senza far rumore. Come una stanza può illuminarsi di colpo perché arriva il sole cambiando tutto l’ambiente. Ovunque, di colpo si può essere sorpresi da un’ombra o da una luce e tutto accade nel silenzio, tutto si stravolge, ma senza rumore.
Si può pensare a un cambio di paradigma rispetto ad altri suoi spettacoli e qual è stata la spinta ispiratrice di questo lavoro?
Ogni mio progetto è un cambio di paradigma. È però vero che questo processo è stato particolare. L’ispirazione è nella relatività delle cose, della vita. È stato molto complicato misurarlo, perché si è dovuto dosare la volontà. Non si dovevano prendere decisioni troppo in fretta ma occorreva avere la pazienza affinché le cose potessero rivelarsi gradualmente. È un po’ sempre così, ma in questo caso in particolare. Lo scorso anno abbiamo fatto una residenza al LAC e all’inizio volevo fare uno spettacolo per quattro danzatrici/tori. Quando però ho visto due persone su quel palco abbiamo avuto la voglia di togliere tutto e denudarlo completamente per avere solo due presenze.
Così facendo, di colpo, avevate una grande immensità di spazio?
Di colpo quella grande immensità di spazio, in larghezza, altezza e profondità, viene tenuta da quelle due presenze che lavorano il loro corpo in rapporto con la sua architettura. Siamo veramente partiti da quello. È stato l’inizio del materiale danzato, esplorando tutti i più piccoli anfratti, entrando in una zona o in un’altra in rapporto allo spazio, al territorio.
Un’idea iniziale molto semplice?
Si, fatta di due presenze, uno spazio al quale relazionarsi, della luce che passa e che non passa. In definitiva occorreva riuscire a scrivere affinché quella specie di evanescenza potesse essere palpabile come la sensazione di un sentiero, dell’attraversamento di spazi differenti. Ho anche pensato molto a percorsi che si possono intraprendere, con i momenti di sosta e di ripresa. Amo stimolare lo spettatore nel creare il suo proprio spazio, a fare il suo percorso. Non mi piace dare un’unica idea ma ho voglia di aprire all’interpretazione.
Ombra e luce, un binomio importante
«Alla base di tutto c’è Leon Spilliaert e la sua idea di ombra: è lui che mi ha dato l’iniziale ispirazione, accanto a una sorta di tuffo nella melanconia. Non dimentichiamo che vengo da Ostenda, vicino a tutti i suoi paesaggi marini, con la potenza del mare, la tempesta, le pitture notturne, i suoi ritratti di donne viste di schiena che aspettano i pescatori sul bordo del mare. Sono passata anche attraverso una fase Rothko. Tutto ciò mi ha nutrito prima di iniziare il progetto».
La sua danza viene accostata alla pittura astratta e alle arti plastiche: è un modo per sfuggire a logiche formali?
In realtà rispecchiano i miei interessi. Alla base c’è il movimento, la luce, la musica, un universo che porta a creare un’immagine. La scena è un’immagine. Io amo molto l’architettura, la pittura, il cinema, la letteratura e per me è importante descrivere la scena. Che non è scrivere il movimento bensì la scena. In sostanza è come quando si cambia il filtro di un riflettore: si percepiscono le cose differentemente.
E la letteratura?
Per Quiet Light, in particolare, (nell’immagine un momento dello spettacolo) mi hanno colpito gli Spazi Bianchi di Paul Auster (un testo di prosa poetica dello scrittore newyorkese scomparso nel maggio scorso, ndr). Hanno lo stesso sapore di quello che cercavo di fare emergere. Quando Auster è morto ho realizzato che è stato l’unico autore che ho letto in fiammingo, in inglese e in francese. In inglese perché da giovane lo parlavo e lo leggevo molto, in fiammingo perché è la mia lingua madre, in francese perché volevo perfezionarlo quando mi sono trasferita a Ginevra. In altre parole Auster è lo scrittore che mi ha accompagnato tutta la vita.
Nella danza preferisce la lentezza, la velocità o l’immobilità?
Amo l’esplorazione della temporalità, in tutto il suo ambito. La fissità restituisce alla percezione e allo sguardo il tempo necessario affinché si possa veramente vivere un’immagine. Più si lascia passare il tempo e più si scopre qualcosa di sottile.
Quale linguaggio deve avere la danza per arrivare a tutti senza necessariamente ricorrere a categorie riconosciute?
Non direi che la danza debba parlare un certo linguaggio. Trovo che la sua forza risieda nel riuscire a giungere ovunque, oltre la semplice ragione e in ogni luogo differente: fisico, visivo, emozionale, psichico. È come per l’immagine. È anche per questo motivo che si può piangere davanti a un quadro nero di Malevič.
Qual è il ruolo politico dell’arte?
È quello di preservare il suo spazio di libertà. È uno spazio protetto che deve far sognare e che non dovrebbe subire il sistema politico. Ma è un discorso lungo e complesso che non amo affrontare. Io difendo la libertà dell’arte.