Ucraina: l’operazione diplomatica semiclandestina di Cina e Brasile e le parole non dette dal presidente russo
Ci sono voluti due anni e quattro mesi, ma finalmente Putin ha stabilito per quali scopi ha invaso l’Ucraina. Nel discorso pronunciato il 14 giugno al ministero degli Esteri russo, Putin ha infatti indicato le sue condizioni di una pace con l’Ucraina. Due dimensioni fondamentali: quella territoriale e quella che riguarda lo statuto internazionale del Paese vicino.
Per quanto riguarda il territorio, Putin intende mantenere sotto il proprio controllo le quattro province appena annesse alla Federazione Russa, oltre alla Crimea e a Sebastopoli già «riportate a casa» nel 2014. Si tratta degli oblast’ del Donbass piuttosto allargato, ovvero Donec’k, Luhans’k, Zaporižžja e Kherson. Nel momento in cui Kiev accettasse questa «proposta» le ostilità da parte russa cesserebbero immediatamente e si avvierebbe il negoziato per un vero e proprio trattato di pace. Per quanto riguarda la dimensione internazionale, Putin pretende la neutralizzazione della Repubblica Ucraina, o comunque l’impossibilità di installarvi armi, soprattutto missili, della Nato o di altri Paesi.
Sia Zelensky che i suoi sostenitori, occidentali e non, hanno immediatamente respinto con toni forti queste idee putiniane. Ma è interessante scavare sotto la superficie di queste dichiarazioni e di alcuni movimenti diplomatici più o meno visibili che si stanno attivando. Per quanto riguarda la parte pubblica, la conferenza organizzata in Svizzera, formalmente dedicata alla pace, in realtà è stata una manifestazione di sostegno all’Ucraina invasa, ha comunque segnalato la difficoltà di Kiev di tenere sulla propria linea tutti i suoi sostenitori. Il vocabolario di Zelensky negli ultimi mesi contempla anche la parola pace, fino all’altro ieri piuttosto negletta. È inoltre in corso, fra le altre, un’operazione diplomatica semiclandestina sviluppata in coordinamento da Brasile e Cina. Due membri Brics, il secondo dei quali fondamentale per consentire alla Russia di limitare i costi della guerra. Brasilia e Pechino stanno tessendo una rete per porre le precondizioni di un negoziato di pace.
Ma il documento più interessante resta il discorso di Putin, durato oltre un’ora e ricco di interessanti dettagli. Si tratta anzitutto di un intervento fortemente difensivo, quasi autoassolutorio. Nulla di trionfalistico. Una ricostruzione pro domo sua di quanto accaduto dal 2014 a oggi in Ucraina e dintorni, nell’obiettivo di spiegare anzitutto alla sua opinione pubblica come questa operazione speciale sia tutt’ora in corso dopo 27 mesi. Fra le altre osservazioni, interessante è l’accento messo sui negoziati di Istanbul, che nel marzo/aprile 2022 sembravano avere spianato la via verso una tregua. L’idea di base di quei negoziati era la neutralità di Kiev in cambio del ritiro della Russia dai territori conquistati dopo il 24 febbraio. A quanto è stato possibile stabilire, anche da fonti occidentali, quella intesa provvisoria fu parafata dai due ministri degli Esteri, Lavrov e Kuleba, per essere sottoposta alla firma dei capi. Ma proprio in quelle settimane il clima cambiò improvvisamente, soprattutto per il massacro di Bucha, che Putin qualifica di «provocazione». In particolare, il premier britannico Johnson sarebbe volato da Zelensky per invitarlo a continuare la guerra, ad approfittare della debolezza russa.
Parallelamente a questo negoziato russo-ucraino, si svolgeva anche un’altra mediazione sviluppata da una potenza occidentale, che Putin non nomina, ma che è facilmente identificabile con Israele. L’ex primo ministro Bennett si era recato separatamente a colloquio con Putin e con Zelensky e a quanto pare era riuscito a compiere il primo tratto verso una tregua che poi potesse diventare pace. Poi, nello stesso periodo degli accordi di Istanbul, tutto è saltato. Il fallimento di questi due tentativi ha chiuso il capitolo dei negoziati mentre ha inasprito i combattimenti.
Quello che i commentatori hanno trascurato dell’intervento di Putin è il non detto. Nel momento in cui ostenta gli obiettivi territoriali citati, il presidente russo esclude automaticamente di volere arrivare a Kiev, o anche solo a Odessa e a Kharkiv. Non sarà facile convincere la parte più estrema della sua opinione pubblica che queste rinunce sono inevitabili. Nella narrazione ufficiale russa, da sempre Kiev è la culla della Grande Madre, la fonte stessa dell’identità nazionale. Quanto a Kharkiv, seconda città dell’Ucraina, e soprattutto Odessa, è senso comune russo che siano gioielli della Corona. Se consideriamo poi quello che Putin non dice, cioè che l’obiettivo primario dell’operazione era imporre a Kiev un proprio uomo di fiducia, ci si rende conto che gli obiettivi oggi tracciati sono molto meno ambiziosi di quelli per i quali era stata effettivamente scatenata la guerra.
Non è ancora il tempo di tirare le somme di chi abbia vinto o perso questa «operazione speciale» che ha comunque ridotto l’Ucraina a uno Stato fantasma e imposto duri sacrifici anche all’invasore. Resta però amara l’impressione che questo massacro infinito potesse essere evitato e che almeno la neutralizzazione dell’Ucraina, questioni territoriali a parte, sarebbe stata possibile attraverso normali negoziati. Lasciamo agli storici la sentenza, mentre prendiamo di questo discorso e dei movimenti diplomatici in corso il senso che entrambe le parti, in un modo o in un altro, saranno costrette a inventarsi una tregua. Al più tardi l’anno prossimo. Oppure ad affrontare un salto nel buio.