L’incultura al potere

by Claudia

Shakespeare come i furmagiatt. Kant come gli jodler: tutto è «cultura». Uno sveglio libraio me lo fa notare sorseggiando il caffè in centro a Lugano. «Non puoi più permetterti di parlare di cultura alta o bassa, ogni cosa viene messa sullo stesso piano». Ne troviamo indiretta conferma anche nell’intervista a pagina 39 alla responsabile della Direzione Società e Cultura del Percento culturale Migros nazionale Hedy Graber, secondo la quale per l’UNESCO, l’ente culturale delle Nazioni Unite, «tutto ciò che non è natura è cultura». Dovremmo allora dire che saper fare il risotto equivale a scrivere la Divina Commedia? Con tutto il rispetto per la nobile storia delle risaie e per le competenze agricole, tecniche e culinarie che ne derivano, su su fino al piatto fumante che ci mettono sul tavolo, ne dubitiamo. Perché il risotto lo puoi gustare anche se sei ignorante, la Divina Commedia no.

Riconosciamo il profondo valore culturale delle tradizioni, delle professioni, delle scienze e delle competenze non prettamente intellettuali, troppo a lungo ingiustamente considerate «minori». Ma oggi succede il contrario: ci si vergogna della cultura con la C maiuscola. Dev’essere troppo pesante per i lounge bar che contano, quindi viene mimetizzata. Ci sono siti di giornali che non hanno più la sezione «cultura», ma solo voci settoriali come «mostre» (e non «arte») o «libri» (e non «narrativa» o «saggistica»). La cultura è nemica dei «click», meglio nasconderla. «In una società molto individualizzata, è interessante come la cultura stia diventando un fattore di benessere», dice ad «Azione» Hedy Graber. Vero. Ma a noi sembra che spesso, più che un fattore di felicità, la cultura sia considerata un ostacolo non dico al divertimento, ma alla comprensione della realtà. Molti vedono un intellettuale in tv e cambiano canale.

Gli «eccessi di istruzione» suscitano sospetto. «Sento un grande livore nei confronti di categorie che tradizionalmente fanno riferimento al mondo universitario – scrive un ragazzo su Reddit Italy. Lo studente universitario è un mantenuto ingenuo che non ha mai conosciuto la fatica vera, che dovrebbe quindi iniziare a lavorare prima; i professori diventano i professoroni, quindi gente piena di sé scollegata dalla realtà». Qualche volta è vero. Molte altre no: le scuole sono i luoghi dove da secoli strutturiamo con la fatica dello studio la nostra intelligenza.

Tutta questa diffidenza per «chi sa» puzza di soldi. La cultura non paga, non riempie il conto in banca. Non a caso, qualche anno fa, Silvio Berlusconi lanciava l’idea della «scuola delle tre I»: Inglese, Impresa e Internet. L’Odissea? Non pervenuta. L’illuminismo? Pure. Il latino? Bah. Alla fine, la cultura è triturata dai social, che, secondo l’inarrivabile aforisma del compianto Umberto Eco «danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel».

Esagerazioni? Non credo. I populisti basano buona parte del proprio successo sull’antiintellettualismo, inteso come difesa della «gente comune» contro l’elitarismo politico e accademico delle persone istruite, viste come snob che, felici e beati nelle proprie «torri d’avorio», ignorano i problemi del «popolo». E così succede che alle elezioni europee siano andate a gonfie vele formazioni che negli scorsi anni hanno sposato idee antiscientifiche sul Covid ed esaltato Vladimir Putin come la quintessenza del genio politico. L’incultura al potere.

Succede anche che un tempo a illuminare i potenti erano (in parte) gli intellettuali e oggi ci pensano gli «influencer» più trendy di TikTok. Sono più belli di lui, ma preferisco Umberto Eco.