Vincere il tour con un colpo di dadi

Il ciclismo è uno sport senza pietà. Quando la fatica t’inchioda alla bicicletta non c’è via di scampo: il cuore balla come un tarantolato, i polmoni sembrano il deserto del Sahara, i muscoli si riempiono di acido lattico fino all’urlo dei crampi, mentre lo sguardo corre lassù, alla prossima curva, al prossimo tornante dove rifiatare almeno per un secondo. Ogni metro è una piccola epopea.

C’è qualcosa di leggendario nel trascinare in cima a una montagna una macchina di acciaio (o di fibra di carbonio, ma è lo stesso). Il puro sforzo fisico diventa un esercizio poetico, mentre il corpo umano si adegua alla geometria del telaio e del manubrio. Dai pedali alla catena, ogni segmento è disposto in una sequenza logica, come accade in una sinfonia o, appunto, in un poema. Per questa ragione forse molti scrittori si sono interessati di ciclismo. Per citarne uno solo, Vittorio Sereni evoca una gara di biciclette in una lirica intitolata non senza ironia La poesia è una passione?. Nei primi versi appare «il campione che dicono finito, / che pareva intoccabile dallo scherno del tempo» e che ormai sembra spacciato. Invece «nella corsa che per lui è alla morte / ancora ce la fa». Eccolo, qualcosa annuncia il suo arrivo: «un movimento di gente giù alla curva, / uno stormire di voci che si approssima / un clamore un boato, è incredibile è lui / è solo s’è rialzato ha staccato le mani / ce l’ha fatta… e dunque anch’io / posso ancora riprendermi, stravincere» (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Mondadori 1965; 2018).

Anche nell’ambito del gioco da tavolo il ciclismo ha sempre avuto successo. Infatti quella del «gioco di corsa» è una meccanica fondamentale: si tratta di una contesa in cui vince chi finisce per primo di compiere un’azione (completare un percorso, ma anche costruire un palazzo o dominare un impero). Il ciclismo poi richiama il cosiddetto «gioco dell’oca», che ha origini antiche: i primi esempi moderni risalgono al XVI secolo, ma ci sono manufatti simili nell’antico Egitto. Anche un classico come il backgammon, pure di origini antichissime, presenta uno scenario in cui bisogna portare a casa le pedine prima dell’avversario.

I giochi che trattano specificamente di ciclismo aggiungono la dimensione dell’epica, fra scatti, crisi, volate, imprese in solitaria. È molto bello per esempio Leader 1, la cui prima versione risale al 2008 ma che venne poi ripensato dagli stessi autori con Leader 1: Hell of the north (Christophe Leclercq e Alain Ollier, Ghenos Games 2011). Ha diversi punti di forza: regge da due a dieci partecipanti, dà la possibilità di comporre percorsi variabili grazie a delle tessere esagonali, è ricco di colpi di scena e non è troppo lungo (un’ora basta a finire una partita, anche meno). In più, riprende fedelmente quello che succede in una gara come la Paris-Roubaix, temibile per i tratti in pavé, tanto da essere soprannominata «l’inferno del Nord». I corridori possono restare in gruppo o andare in fuga, spendendo più energie; ci sono scalatori, gregari e velocisti; è importante non restare da soli al vento e attaccare al momento giusto. Oltre alla Paris-Roubaix e alle classiche, Leader 1 consente di mettere in scena anche corse a tappe come il Giro d’Italia o il Tour de France. Detto questo, il gioco è apprezzabile (per fortuna!) anche da chi non sappia niente di ciclismo.

Si provano sensazioni simili con Flamme rouge (Asger Harding Granerud, Lautapelit 2016), che regge da due a quattro partecipanti: è meno simulativo, ma un po’ più semplice da intavolare con nuovi giocatori. Si avverte di più l’effetto della pura fortuna rispetto a Leader 1; e del resto, quando fori una gomma, anche nella realtà c’è poco da fare…

Il mondo dello sport e quello del gioco, quando sono vissuti in maniera creativa, hanno un punto in comune: sanno generare storie. Questo conferisce loro un valore culturale: quel piccolo essere umano che fatica sulle rampe di un colle siamo noi, nella nostra vita, e nello stesso tempo è tutti gli eroi di tutte le storie. Non a caso, nelle sue cronache dal Giro d’Italia del 1949, Dino Buzzati citava addirittura Omero: «Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che inseguiva da solo a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango […] – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire. Quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille» (Dino Buzzati, Dino Buzzati al Giro d’Italia, Mondadori 1981).

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