L’Africa è cambiata, ve n’eravate accorti?

Se l’attenzione dei media fosse un po’ più equamente distribuita, l’Africa campeggerebbe sulle home page dei siti di notizie e in cima ai sommari dei telegiornali. Il 2023 e la prima metà del 2024 sono stati segnati da avvenimenti che vanno disegnando un’Africa nuova. Diversa tanto per i cambiamenti all’interno dei singoli Stati, quanto per la posizione che il continente occupa sulla scena internazionale, oggi decisamente più rilevante. Alcune novità sono positive per l’Africa; altre no. Tutte insieme compongono un’immagine inedita, che facciamo fatica a costruire nella nostra mente, in ragione della frammentarietà e relativa casualità dell’informazione che arriva fino a noi.

Proviamo a ordinare i fatti. Cominciamo dalle elezioni sudafricane di fine maggio. Per la prima volta in trent’anni, cioè da quando è al potere, l’African National Congress non ha ottenuto i voti sufficienti a governare da solo. Il suo leader Cyril Ramaphosa è stato rieletto dal Parlamento alla presidenza del Paese solo dopo aver formato una coalizione con la Democratic Alliance e due formazioni minori. Il partito che fu di Nelson Mandela ha pagato il conto del suo crescente malgoverno e della corruzione che l’ha animato per decenni. Ha fatto molto per i sudafricani, ma gli elettori erano in diritto di aspettarsi di più.

Perché questo collasso elettorale non è avvenuto prima? Ci si può rallegrare perché la condivisione delle responsabilità di governo è comunque una vittoria per la democrazia. Ma ora la vita politica sudafricana si sta riorganizzando secondo pericolose linee di faglia etniche e razziali mai sparite. L’opposizione populista radicale degli Economic Freedom Fighters accusa il Congress di essersi «venduto ai bianchi», perché la Democratic Alliance, la cui leadership è da tempo rappresentata da neri, è l’erede dei vecchi liberal di origine britannica. E il nuovo partito dell’ex presidente Jacob Zuma, balzato dal nulla al terzo posto, ha una forte identità etnica zulu. Entrambe le formazioni che dominano l’opposizione – quest’ultima nel nome, i Freedom Fighters nell’abbigliamento – alludono con la loro retorica a un passato di violenza politica.

Considerate anche le difficoltà economiche, il Paese rischia un periodo di crescente instabilità. Ed è un peccato, perché il ruolo del Sudafrica sulla scena internazionale si è affermato negli ultimi tempi, proiettandolo tra i Paesi-guida del «Sud globale», che cerca di ottenere ascolto nell’attuale mondo multipolare. È questo uno degli effetti più significativi delle due maggiori crisi internazionali in corso, Ucraina e Gaza, a noi poco presente e invece molto significativo.

Già nella prima risoluzione dell’Assemblea Onu sulla guerra in Ucraina, nel marzo 2022, con la Russia condannata dalla maggioranza delle nazioni, l’Africa si era smarcata, facendo registrare un numero significativo di astenuti (tra cui lo stesso Sudafrica) e di non partecipanti al voto. Ma l’iniziativa sudafricana più recente e rilevante è stata l’aver chiamato in causa il Tribunale penale internazionale con l’accusa di genocidio a carico di Israele, a proposito della guerra a Gaza. Il pronunciamento ha avuto un certo successo, sia sul piano giuridico sia su quello giudiziario, e ha ottenuto ampi consensi da parte del «Sud globale».

La portata di queste dinamiche diplomatiche è stata fortemente ampliata da altri percorsi di allontanamento dal campo euro-occidentale, che presto hanno fatto parlare gli osservatori di un nuovo «multiallineamento» africano. Dobbiamo cambiare regione, spostandoci dall’Africa australe al Sahel, in Africa occidentale. Qui, tre Paesi tra di loro limitrofi – Mali, Burkina Faso e Niger – hanno radicalmente cambiato regime nel corso dell’ultimo paio d’anni, attraverso colpi di Stato militari. Per tutti e tre, il problema è l’insicurezza causata dal terrorismo jihadista, che semina morte e devastazione nelle campagne e nei villaggi. In successione, generali e ufficiali ora al potere hanno chiesto aiuto alla Russia, attraverso l’esercito privato noto come Gruppo Wagner o direttamente al Cremlino. Al passaggio, hanno cancellato gli accordi di cooperazione militare o di altra natura con la Francia, che in tutti e tre i casi è l’ex potenza coloniale. In Niger c’era anche una base americana, ora invitata a chiudere i battenti. La rottura con la Francia ha assunto qui e là modalità molto aggressive, in un clima di generale ostilità all’Europa e all’Occidente. Ecco il multiallineamento: meno Europa, meno America, più Russia, più Cina (e più Turchia, più India). La retorica dei nuovi leader con le stellette burkinabe e nigerini è improntata a idee nazionaliste, anti-neocolonialiste, a tratti panafricaniste. Citano Lumumba e altri eroi delle indipendenze. Si considerano alfieri di un nuovo vento di libertà; resta da vedere se i nuovi amici soffieranno nella stessa direzione. Il Senegal ha cambiato anch’esso orientamento e presidente, ma con le elezioni, sta per ora a guardare, con evidente simpatia, i nuovi scenari.

Questo riassestamento geopolitico ha generato nel 2022 un frenetico viavai diplomatico, con i ministri degli Esteri americano, russo e cinese impegnati in estenuanti tournée africane. «L’Africa ha il mondo intero in sala d’attesa», ha riassunto un giornalista francese. I leader alzano il prezzo e stanno a vedere chi sarà il miglior offerente (il Kenya, per esempio, ha scelto gli Usa, di cui è diventato il maggiore alleato continentale).

Quali saranno le conseguenze per l’Europa? Lo sapremo presto. I flussi migratori s’intensificheranno. I Paesi saheliani non collaborano più alle strategie di contenimento, e i motivi che spingono moltitudini a cercare fortuna oltre il Mediterraneo non fanno che aumentare. Il cambiamento climatico sta privando della sussistenza milioni di persone. L’inflazione impoverisce intere nazioni (per prima la Nigeria, la più popolosa del continente). La devastante guerra intestina in Sudan – altro frutto avvelenato dell’ultimo anno – genera un fiume ininterrotto di profughi. Converrà dedicare all’Africa maggior attenzione.

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