Regno Unito: nel suo ottavo tentativo di entrare a Westminster le chances dell’eterno disturbatore della scena britannica non sono mai state così forti
«It’s done», come dire «è fatta» (la Brexit) ma anche «è finita» (per i Tories). Tutto si può dire di Nigel Farage tranne che non sia, tristemente, uno dei migliori comunicatori sulla piazza. Politici no, sarebbe troppo, perché l’arcipopulista eterno disturbatore della scena britannica non è mai andato oltre gli slogan, che sa scegliere bene, come questo perfidissimo ultimo in cui gioca con il famoso «Get Brexit Done» di Boris Johnson. Anche perché non è mai arrivato ad amministrare un bel nulla anche se adesso, all’ottavo tentativo di entrare a Westminster, le sue chances non sono mai state così forti: il suo nuovo partito, Reform Uk, nato dalle ceneri dello Ukip brexitaro (e imploso per evidente mancanza di idee, talenti, leadership), sta alle calcagna dei Tories nei sondaggi per le prossime elezioni del 4 luglio, con il 18% contro il 20% secondo YouGov. Anzi, in alcuni casi addirittura lo supera, posizionandosi come seconda formazione e segnando in questo modo la fine dello storico ordine bipartitico. In assenza di una sfera di cristallo è difficile dire se sarà così, ma comunque vada per i Conservatori deve iniziare un lungo periodo di ripensamento della propria identità. Dopo 14 anni al governo e 5 premier, la loro leggendaria capacità di garantire stabilità è a brandelli. E Farage, in tutto questo, c’entra qualcosa.
Quando il 3 giugno scorso Farage ha annunciato che si sarebbe candidato a Clacton-on-Sea, una di quelle cittadine costiere decadute in cui i populisti hanno furoreggiato negli ultimi decenni, le cose non sembravano poter andare peggio per il premier Rishi Sunak. A furia di adattare la sua retorica e le sue politiche agli istinti più populisti della società, è stato inevitabile per tutti pensare che Farage fosse il modello originale della sua proposta politica confusa. E Clacton è un seggio particolarmente permeabile a un certo tipo di retorica, visto che è lì che è stato eletto il primo deputato di Ukip nella storia del partito, l’ex Tory Douglas Carswell, diventando di fatto una sorta di capitale ideale della Brexit, tra charity shops e deambulatori, un terzo della popolazione fatta di pensionati e un lungomare spettrale con le vestigia del luogo divertente e prospero che era stato un tempo. «È o non è la città più patriottica del Regno Unito?», ha chiesto Farage davanti a una folla adorante il 18 giugno scorso, facendo preoccupare di molto i commentatori. D’altra parte lui continua a giocare il gioco della polarizzazione, mentre gli altri due contendenti, Sunak&Starmer, per dirla con la brillante Camilla Long del «Times», «si farebbero uccidere piuttosto che finire in un titolo di giornale». Gli argomenti controversi non si discutono, di dettagli non si parla e si agitano solo vaghi concetti di crescita e giustizia sociale in questa campagna elettorale in cui non sono in gioco le misure specifiche, ma una certa idea di Paese: pacificato, ottimista, se non proprio guarito almeno convalescente.
Perché i segni di un disagio ci sono ancora. Negli ultimi giorni Farage ha suscitato molte polemiche per aver detto di apprezzare Vladimir Putin come «operatore politico», anche se non come «persona». Secondo lui l’Occidente dovrebbe avviare dei negoziati di pace con la Russia per interrompere lo «stallo» in Ucraina e trovare una via d’uscita a una situazione provocata «stupidamente» con l’espansione ad est della Nato e dell’Unione europea. I media russi sono subito corsi a elogiarlo, mentre la stampa britannica, e quella conservatrice in particolare, ha messo in evidenza, per l’ennesima volta, l’impresentabilità dell’uomo. Boris Johnson l’ha definito «moralmente ripugnante» e ha ottenuto in cambio, in una sorta di scontro tra titani populisti, il bollino di «peggior primo ministro dei tempi moderni» per aver «tradito la volontà dei cittadini britannici sulla Brexit» che, nella retorica di Farage non è stata un disastro perché era una pessima idea, ma perché è stata applicata male, a partire dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che andrebbe respinta in blocco, come i migranti dalle coste, magari con l’aiuto dell’esercito. Farage sa che l’importante è suscitare una polemica, generare un disaccordo da cui racimolare voti, creare la base di un consenso. Si chiama «wedge politics» e fino a ieri l’hanno usata tutti.
La sensibilità politica del fu Ukip, negli otto anni trascorsi dalla Brexit, è infatti diventata piuttosto mainstream anche grazie a Johnson&Co: l’ostilità verso Londra, verso lo spirito cosmopolita, i «citizens of nowhere» come li chiamava Theresa May, l’attenzione agli elettori anziani, dalle vedute più ristrette, il leggendario «fuck business» di Boris e le innumerevoli volte che le istituzioni britanniche sono state infangate per non aver assecondato le richieste irrazionali di un elettorato aizzato dai populisti sono solo alcune delle (brutte) cartoline di questi anni. Che una parte dell’elettorato preferisce nella versione originale, votando Reform UK, e che un’altra parte, apparentemente maggioritaria, vuole dimenticare, perdonando a Keir Starmer e anche ai redivivi LibDem la loro vaghezza. Così si spiega che anche nella City o nelle facoltose cittadine del sud dell’Inghilterra il Labour sia avanti nei sondaggi, e che solo l’8% dei giovani voglia votare Tory (aver annunciato la reintroduzione del servizio civile in caso di vittoria non è stata una grande idea): l’ambiguità costruttiva funziona, il programma laburista è vago ma il cambiamento è benvenuto e l’immagine è quella di una squadra funzionante.
Farage dice di avere come modello il Reform Party canadese, che ha eroso i conservatori fino a costringerli alla fusione. In mancanza di politiche concrete e di un programma serio, è difficile che avvenga: i Tories hanno una storia gloriosa, la di là della sbronza sovranista e antibusiness degli ultimi anni, e tutto indica che le elezioni nel Regno Unito si vincono al centro e che gli estremismi, quando il Paese è in buona salute, non attecchiscono. Ora però bisogna rimettere il Paese in buona salute.