Odermatt & Lobalu due modi diversi per essere eroi

Marco Odermatt è un ragazzo semplice. Parola di chi lo frequenta e lo conosce. Si ritrova comunque inghiottito nello star system. Pochi anni fa non avrebbe immaginato di essere protagonista di una serie di spot pubblicitari accanto all’idolo Roger Federer. Entrambi con smoking e posture che ricordano l’agente segreto più celebre del mondo. Entrambi compiaciuti e divertiti nel loro ruolo di testimonial eccellenti. Pochi anni fa, Marco neppure lontanamente si sarebbe visto quale ospite d’onore al ritiro della Nazionale Svizzera di calcio. Un ospite con licenza di giocare scampoli di partita accanto a Sommer, Akanji, Xhaka e soci. Eppure è andata così. Il fenomeno nidvaldese, anche se il prossimo inverno si ipotizza il ritorno sugli sci del Kaiser Marcel Hirscher, è destinato a firmare nuove imprese, a far vibrare il cuore degli appassionati.

Mentre scrivo queste righe si sta consumando l’elettrizzante rito dei Campionati Europei di calcio. Ignoro se il percorso dei ragazzi di Murat Yakin sia stato lungo e luminoso. Posso solo promettere che, qualora lo fosse, il prossimo numero della rubrica mi vedrà alle prese con superlativi, iperboli e neologismi degni di una celebrazione in grande stile.

Ora, il mio pensiero torna ad altri Campionati europei, quelli di atletica leggera, disputati recentemente a Roma. Un’edizione che, in Italia, per alcuni giorni ha allontanato il calcio dalle prime pagine, per fare posto alle imprese dei vari Jacobs, Tamberi, Crippa e Battocletti. Gli azzurri hanno messo al collo 24 medaglie, di cui 11 d’oro. Un’enormità! Allori provenienti prevalentemente da atleti di origine afroamericana. Alcuni sono «prodotti» del movimento atletico italiano, altri freschi di naturalizzazione. La piccola Svizzera, stabilite le debite proporzioni, ha fatto ancora meglio. Quinto posto assoluto, con nove medaglie, quattro delle quali del metallo più prezioso. Anche nel nostro caso c’è stato un predominio degli atleti con radici extraeuropee, grazie alle sorelle Mujinga e Ditaji Kambundji, Christian Mumenthaler, William Reais e Jason Joseph. Angelica Moser, regina nell’asta, e Simon Ehammer, bronzo nel lungo, sono di origine rigorosamente elvetica. A scanso di malintesi affermo di non voler neppure lontanamente chiamare in causa le terrificanti teorie dell’eugenetica. Sappiamo, lo sostengono le ricerche scientifiche, che gli atleti di origine afroamericana dispongono di fibre veloci ed esplosive, e che quelli degli altopiani dell’Africa sono più portati per lo sforzo prolungato. Mi fermo qui. Punto!

I successi ottenuti dai nostri atleti sono con ogni probabilità il frutto di un capillare lavoro di formazione iniziato anni fa nell’ottica dei Campionati europei del 2014, svoltisi sulle piste e sulle pedane del Letzigrund di Zurigo. In quell’occasione, dopo un periodo di digiuno, la Svizzera salì sul gradino più altro del podio Grazie a Kariem Hussein nei 400 ostacoli. E da qui seguì un crescendo continuo. Mi piace sottolineare la multietnicità vincente del nostro sport. La troviamo nel calcio, nella pallacanestro, nel nuoto, e da alcuni anni anche nell’atletica leggera. È il frutto di un lungo e capillare lavoro di assimilazione e di inclusione. Di vita fianco a fianco. Di scambio. Di osmosi. Lo si voglia o no, sarà sempre più così, proprio grazie allo sport.

Il lettore più attento si sarà accorto che all’appello mancano due medaglie. Quelle conquistate da Dominic Lobalu, oro nei diecimila, bronzo, nei cinquemila. Lui non è un «prodotto» del nostro movimento atletico. E non è neppure cittadino svizzero. Si dice che lo potrà diventare non prima del 2031, quando avrà 33 anni. Ne aveva nove quando scappò dagli orrori della guerra nel suo Paese, il Sudan del Sud, dopo aver assistito allo sterminio di parte della sua famiglia. Dopo un passaggio in Kenya, Lobalu è giunto in Svizzera, dove ha ottenuto lo statuto di rifugiato. In virtù dei regolamenti della Federazione Internazionale di Atletica, ha potuto difendere i colori svizzeri e lo potrà fare anche in futuro, ma non ai Giochi Olimpici, poiché sprovvisto di passaporto svizzero. Peccato. Per lui, così serio, impegnato e meticoloso negli allenamenti. E per tutti coloro che si sono emozionati vedendolo compiere il giro d’onore, all’Olimpico di Roma, orgogliosamente avvolto in una svolazzante bandiera rossocrociata.

Related posts

Il giardino all’inglese di Desio

Il castello di Neuschwanstein e il richiamo del perturbante

Un’eredità da capitalizzare