Quel filo rosso che unisce Francia e Usa

Quando questo giornale era in stampa (venerdì scorso) non sapevo se il Rassemblement National avrebbe avuto una maggioranza parlamentare tale da poter governare la Francia; oppure se Emmanuel Macron sarebbe riuscito a costruire un Governo tecnico, o di unità nazionale, o comunque dall’Eliseo avrebbe giocato a logorare la destra. È uno scenario che mi ricorda la Francia di quasi quarant’anni fa: ero corrispondente a Parigi, quando ci fu la cosiddetta «coabitazione» fra un presidente di sinistra, il socialista François Mitterrand, e un primo ministro gollista, Jacques Chirac. Intanto, dall’altra parte dell’oceano si susseguono voci sul possibile ritiro della candidatura di Joe Biden, assediato da tanti democratici che cercano di convincerlo a rinunciare. Lo shock è stato grande, dopo la sua prova disastrosa nel primo duello televisivo contro Donald Trump. Tutti temevano che l’invecchiamento di Biden gli giocasse brutti scherzi, quella sera le cose sono andate peggio delle previsioni più pessimiste. Abbiamo avuto la tragica conferma di una scelta assurda «fra un delinquente e un deficiente», secondo la battuta che lanciai in un mio programma televisivo sulla Sette. Di colpo milioni di americani hanno avuto di fronte un vecchio insicuro e vacillante, ma in ultima istanza padrone delle decisioni strategiche per la Nazione più potente del mondo. Biden ha fatto paura, quella sera, non solo per la possibilità che perda contro Trump, ma anche per la possibilità che venga rieletto. Consegnare l’arsenale nucleare americano in mano a un uomo in quello stato, è irresponsabile.

Un filo rosso unisce il risultato in Francia e la possibile rielezione di Trump. Le due liberaldemocrazie più antiche d’Occidente si avvitano in crisi parallele. Immigrazione mal governata; liberismo e concorrenza cinese; ambientalismo radicale che carica sui ceti popolari il costo della decarbonizzazione: tre elementi comuni spiegano ciò che accade in America e in Francia. Il rigetto di una società multietnica. Il rigetto dei costi sociali della deindustrializzazione. Infine il rigetto di una politica «verde» che impone rinunce a chi non se le può permettere. Sul tema dell’immigrazione quasi quarant’anni fa fui testimone diretto di qualcosa che era il preludio del trumpismo (ma non lo sapevamo). L’anno era il 1986. Il mio primo incarico da corrispondente estero, a Parigi per «Il Sole 24 Ore». Presidente era appunto Mitterrand, sotto i suoi occhi accadeva qualcosa che nessuno capì veramente, allora, nel quartier generale del partito socialista francese. Gli anni Ottanta videro i primi successi del Front National di estrema destra, all’epoca guidato dal padre di Marine Le Pen, Jean-Marie. Lui riuscì a farsi eleggere nell’Île-de-France, il dipartimento che include la città di Parigi. Iniziò in quel periodo uno spostamento della classe operaia francese. La banlieue parigina era stata comunista da un’eternità; cominciò a votare a destra. Decenni prima che questo diventasse un fenomeno poderoso in tutto l’Occidente, era accaduto là e la ragione era una: l’immigrazione. La sinistra mitterrandiana non poteva capire, perché era ben insediata nei quartieri chic della capitale dove gli immigrati sono soltanto utili: guidano il metrò, raccolgono la spazzatura, servono nei ristoranti, vengono a fare le pulizie di casa, tra le altre cose.

In periferia, invece, dove abitano gli operai metalmeccanici di Renault, gli algerini marocchini e tunisini erano i vicini di casa, sul pianerottolo dirimpetto. Alcuni dei loro figli erano gli adolescenti che trattavano le ragazze bianche come delle prede sessuali. Erano talvolta gli spacciatori di quartiere. Ogni tanto quei ragazzi «beur» (seconda generazione di origine araba) incendiavano delle auto; ma non le Bmw e Mercedes nei quartieri ricchi. Dilagava già allora una legittimazione «di sinistra» dell’aggressività in nome dei torti del colonialismo da riparare; anche se gli operai francesi da quel colonialismo non avevano ricavato vantaggi, erano loro i destinatari ravvicinati della rabbia e dovevano subirla tacendo, in nome delle «colpe dei bianchi». Si aprivano nuove moschee con madrase fondamentaliste pagate dai petrodollari sauditi. La polizia, onnipresente ed efficiente nelle zone chic del quinto, sesto e settimo «arrondissement», nelle periferie si avventurava il meno possibile, lasciando ad altri il controllo del territorio. Gli operai, con un’amarezza silenziosa e una rivolta nel segreto dell’urna, cominciavano a sospettare che la sinistra avesse scelto altri ceti e altri interessi da difendere. Oggi la classe operaia, metalmeccanica o siderurgica, è diminuita numericamente. Non è scomparsa, però. Di operai ne incontro ancora tanti, alle catene di montaggio di Ford, General Motors, Chrysler. Altri ne ho conosciuti e frequentati in Pennsylvania, siderurgici negli altiforni vicino a Pittsburgh. Ne ho intervistati, che votarono per Barack Obama nel 2008 e nel 2012, poi scelsero Donald Trump nel 2016. Peste nera, fascistizzati di colpo, razzisti? Anche se per due volte avevano eletto un afroamericano?

Usando una specie di allegoria per riassumere tante storie individuali, ai bianchi poveri il mitico «sogno americano» («terra delle opportunità») oggi appare come un miraggio distante, una luce fioca all’orizzonte verso la quale vorrebbero progredire. Si raffigurano collettivamente come una grande colonna in fila, in attesa di procedere verso quel traguardo ambito. Ma la fila si muove lentissimamente, è quasi ferma. Ogni tanto però qualcuno si stacca dal fondo, supera gli altri, e passa davanti. Sono, per l’appunto, gli ultimi: i più derelitti, le minoranze a cui la sinistra ha deciso di dedicare un’attenzione speciale. Servizi sociali, Welfare, provvidenze pubbliche, corsie preferenziali, gli vanno riconosciuti anche se a rigor di legge forse non ne avrebbero diritto. I media devono circondarli di attenzione. Una società avanzata, una società democratica degna del XXI secolo, si riconosce da come tratta «loro». I penultimi, li lasci pure dove sono.

A volere il rispetto delle frontiere sono gli immigrati stessi. Ne ho incontrati tanti negli Stati Uniti. Per esempio messicani integrati da tempo, i quali votano Trump perché «di qua regnano la legge e l’ordine, di là il caos». Il fatto è che tutti quegli altri farebbero la stessa cosa. Se fuggono dall’Honduras o dal Guatemala o da qualche regione messicana dove comandano i narcos, è proprio perché negli Stati Uniti pensano di trovare un sistema diverso da quello che lasciano; uno Stato di diritto, dove la polizia e i tribunali funzionano, dove chi rispetta le regole può lavorare in pace, far studiare i figli, costruirsi un futuro migliore. Il confine lo vogliono oltrepassare non perché lo considerano obsoleto, ma al contrario perché lo considerano una protezione efficace, a tutela di chi sta dall’altra parte… I richiedenti asilo hanno le idee chiarissime, sull’importanza sacrosanta dei confini. E il messicano che «ce l’ha fatta» non è necessariamente un egoista. Ha però il timore che un’immigrazione selvaggia e sregolata, porti di qua dal confine quel caos violento e feroce che lui si è lasciato alle spalle. Il messicano che si è naturalizzato diventando cittadino degli Stati Uniti, nel rispetto delle regole e delle procedure, talvolta condivide le preoccupazioni dell’operaio bianco del Michigan: come in tante altre cose, pensa, anche per l’immigrazione è questione di quantità, di dosaggio, di regole e di equilibri.

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