«Sbucammo in una vasta prateria: bisognava allora fare il meno rumore possibile: eravamo vicini alla tanto desiderata frontiera… Prima di uscire dal bosco, ci fecero fermare per un quarto d’ora; intanto andavano a esplorare i dintorni e a tagliare la rete. Poco dopo ci rimettemmo in marcia. Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete; fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera; in Svizzera». Con una grafia pulita, teneramente infantile, Bruna Cases, una bambina ebrea di nove anni, descrive nel suo diario la fuga con la madre dall’Italia nazi-fascista, per ricongiungersi al padre e al fratello già rifugiati in Svizzera.
È il mese di ottobre del 1943, quando varcano la frontiera in territorio di Stabio, «probabilmente fra il cippo 124 e il 126, fra Bellacima e Monticello», precisa Fiorenzo Rossinelli, già comandante del Corpo delle guardie di confine IV, che oggi mi accompagna alla scoperta del cosiddetto Sentiero dei cippi, inaugurato da pochi mesi (vedi articolo sotto) proprio qui, in quest’angolo di Ticino, che vive giornalmente la realtà complessa di una terra di frontiera. Fiorenzo la conosce bene questa realtà, l’ha condivisa e studiata in tutti i suoi aspetti e ne parla con contagiante passione.
«Percorrere il Sentiero dei cippi – mi dice, mentre lasciamo la stazione di Stabio e c’incamminiamo lungo il Riale Gurungun, accompagnati da un sommesso scorrere d’acqua tra ondeggianti ciuffi d’erba – è come immergersi nella storia e nelle storie del confine nazionale, che è molto più di una semplice linea tracciata su una mappa». Ha ragione Fiorenzo, i confini nazionali sono gli strumenti essenziali per la gestione di uno Stato, ma anche simboli di sovranità e identità, barriere insormontabili per alcuni, fari di speranza e di salvezza per altri, e, come attesta tristemente la storia dell’uomo e la cronaca di ogni giorno, fonti potenziali di conflitto e divisione. In un mondo sempre più globalizzato, anche il loro ruolo e il loro significato continueranno a evolversi, riflettendo le tensioni e le dinamiche di una società in continua trasformazione.
Si insinuano nei boschi, attraversano praterie, scivolano sui crinali delle montagne o s’intrufolano sornioni e invisibili nelle case, ma per palesare la presenza dei confini, il territorio è costellato di segni ben precisi, cippi di pietra, iscrizioni sulle rocce, placche di ottone, paletti, linee colorate…
L’intero perimetro della Svizzera è punteggiato di settemila termini, di varie fogge, settecento delimitano il canton Ticino e oltre un centinaio demarcano gli otto chilometri di confine nazionale attorno al comune di Stabio. Li incontreremo sul nostro percorso e ci aiuteranno a capire l’origine delle frontiere che ci circondano e per quali circostanze si sono cristallizzate lungo la linea che conosciamo oggi. C’imbatteremo anche in dodici punti, ognuno segnalato da un codice QR, che riassumono le principali informazioni relative ai cippi storici e ai siti più importanti.
Il primo punto è collocato lì, accanto a un edificio in sasso, persiane rosse e la bandiera rossocrociata mossa appena da un alito di vento esposta al balcone. È la casa doganale della Prella di Genestrerio, una delle tante che ospitavano un tempo il posto e le guardie di confine. Inquadro il codice con lo smartphone che mi restituisce informazioni sulle case doganali e i posti di guardia.
Profumo d’erba umida, poi una zaffata di un non so che di chimico mi solletica il naso. Arriva dritto da un susseguirsi di filari ordinati. Qualcuno deve aver trattato i vigneti, che disegnano geometrie sul terreno fino alla Prella di Fondo.
Una costruzione squadrata sembra inghiottita dal pendio, è la stazione d’entrata del gasdotto dell’AIL (le Aziende Industriali di Lugano) proveniente dall’Italia. Un’infilata di cartelli numerati color arancio rivelano il percorso della condotta, che distribuisce il gas nel Sottoceneri.
Il viottolo, pianeggiante, ora si tuffa in un buco d’ombra. Le piogge degli scorsi giorni hanno lasciato larghe pozzanghere, che riflettono le chiome degli alberi da cui filtrano raggi di sole. Ecco un primo cippo, che sbuca dall’erba, sul confine tra Stabio e Genestrerio. È una bella pietra dai bordi arrotondati, su un lato c’è la «I» d’Italia e il numero, 108 B, sull’altro, la «S» di Svizzera e la data, 1899. Relativamente recente, se si pensa che i più antichi che incontreremo risalgono al 1559. Questo fa parte della serie di termini intermedi piantati sul finire del XIX secolo per definire con maggiore precisione il confine dopo la nascita del Regno d’Italia. Il 108 C lo troviamo poco più in là, dove il sentiero esce per breve dal bosco.
Alcune mucche pascolano pigramente sul lato italiano. Questi prati sono di proprietà svizzera, spiega Fiorenzo, anche se la ramina li taglia in due. Suppongo che pure le mucche siano svizzere. Una delle tante bizzarrie delle zone di frontiera.
Qui la rete confinaria sembra in buono stato, altrove è scomparsa o si è intrecciata con la vegetazione, chiusa in un abbraccio di ferro e legno. L’hanno posata gli italiani per combattere il contrabbando a partire dal 1895 e negli anni seguenti fino al ventennio fascista compreso.
Mi sembra di fare un viaggio a ritroso nel tempo, con le pietre che parlano di vecchi rivolgimenti politici. Ce ne sono di più alte e snelle e portano le scritte Stato Svizzero Comune di Stabbio (con due «b»), su un lato, e Stato di Milano Comune di Bizzarone, con la data, 1754, sull’altro. All’epoca, la Svizzera dei tredici Cantoni confina con il ducato di Milano, passato da quarant’anni sotto il dominio dell’Austria, con cui i nostri devono trattare per dirimere le questioni di frontiera dei loro baliaggi italiani legate allo sfruttamento di boschi, campi, prati e predére, le cave di pietra. Possedimenti che a volte vengono a trovarsi dalla parte opposta del confine, con tutte le comprensibili conseguenze. Così, nell’agosto del 1752, è stipulato con gli austriaci il Trattato di Varese, e due anni dopo si piantano 203 nuovi cippi, la cui numerazione è tuttora utilizzata.
Una nevicata di fiori di aglio orsino imbianca il sottobosco, che libera un profumo intenso. Passa qualche ciclista, incrociamo un cavallerizzo che si allontana con un clop clop di zoccoli. Altra serie di cippi, sono quelli del 1921/22, piantati per rispondere alle lacune dovute allo sviluppo dell’urbanizzazione e all’apertura di nuove strade.
«Questo è un sentiero promiscuo», m’informa Fiorenzo, diviso tra Svizzera e Italia, e un cippo messo lì proprio in mezzo al passaggio ne dà la conferma. A Santa Margherita, ecco un’altra di queste bizzarrie di confine. Un binario emerge dall’erba per una ventina di metri e finisce contro un alto cancello di ferro avvolto dalla vegetazione. È quel che resta della ferrovia, detta del malocchio, che collegava Mendrisio a Castellanza passando dalla Valmorea. Costruita sul lato italiano nei primi decenni del Novecento, è completata nel 1926 in territorio svizzero con il tratto tra Mendrisio e il confine. Un paio d’anni dopo, però, il Duce mette fine alla transnazionalità della linea, bloccandola a Stabio con questa cancellata integrata nella rete confinaria. Lì vicino c’è il Grotto di Santa Margherita della famiglia Manghera, fabbrica di sapone a inizio Novecento e tra le prime case ticinesi ad avere la luce elettrica, proveniente dall’Italia. Nonno Nicola, che si dilettava con la pittura, ne afferma l’elveticità affrescando sulla facciata che guarda il confine tre imponenti immagini patriottiche, Guglielmo Tell, l’Elvezia e un imperturbabile generale Guisan, che si contendono lo spazio con una sfilata di figure decisamente più gaudenti e festaiole.
Il nostro viaggio prosegue, come quello del torrente Gaggiolo, che attraversiamo poco prima dell’omonima dogana. Un viaggio curioso, il suo, che inizia in territorio svizzero, nella val Porina, sul Monte San Giorgio, esce in Italia dopo Arzo diventando il Torrente Clivio, ripassa il confine a Stabio riacquistando il nome originario, per poi tornare in territorio italiano a Santa Margherita, chiamarsi Rio Lanza e gettarsi nell’Olona. All’inizio del 16° secolo, il Gaggiolo non abbandonava la Svizzera, ma confluiva nel Laveggio, accompagnandone le acque fino al Ceresio. A causa delle frequenti inondazioni della campagna, i Confederati, insediatisi nel Mendrisiotto nel 1512-1513, decidono di deviare il Gaggiolo e con un’ampia curva lo rimandano definitivamente in Italia.
A metà di quel secolo, la Lega dei Cantoni e il Ducato di Milano, sotto dominazione spagnola, mettono mano ai confini, allora inesistenti, e posano una serie di cippi, soprattutto nei punti di passaggio, per evitare le continue dispute per lo sfruttamento dei pascoli, della legna e delle pietre da costruzione. Portano la data «1559» e sono i più antichi del Ticino. Su una faccia c’è la scritta «LIGA HELVETICA», con la croce svizzera, e sull’altra «STATUS MEDIOLANI», con il biscione della famiglia Visconti.
Ne incontriamo alcuni vicino alla dogana del Gaggiolo e lungo il sentiero che sale nel bosco verso il Monte Astorio.
Fa caldo e l’aria trasuda umidità, che si condensa in goccioline sul ferro arrugginito della rete confinaria, malridotta e piena di buchi, da dove passavano le piste dei contrabbandieri, quando il contrabbando era ancora «romantico». «Non mi piace quell’aggettivo – sbotta Fiorenzo – non c’era niente di romantico nel contrabbando! Erano tempi grami e i sfrosadóo, solo povera gente che cercava di guadagnare qualcosa per sopravvivere. Ciò non toglie che qualcuno, da quel traffico, abbia tratto cospicui benefici».
Le stesse piste del contrabbando saranno anche le vie di salvezza per centinaia di poveri disperati in fuga dall’Italia nazi-fascista, durante la Seconda Guerra mondiale, le cui storie sono narrate al punto 9.
Facciamo un’ultima tappa sulla collina di Montalbano, da dove si gode una vista panoramica su gran parte del Mendrisiotto. Vigneti dappertutto. Quello più in alto è extranazionale, ha alcuni filari in Italia e l’uva viene importata in Svizzera esente da dazi, grazie a un permesso di Traffico rurale di confine.
Saluto Fiorenzo e concludo il mio viaggio sul poggio che si erge al centro di Stabio. Un’imponente scultura si staglia contro il pozzo blu del cielo dentro il quale sembra quasi stia per essere risucchiata, è la Sentinella dello scultore Ruggero Larghi, posata lì nel 1953 per commemorare i centocinquant’anni di nascita del Canton Ticino. I suoi occhi di granito chiaro scrutano attenti l’orizzonte, vegliando sul territorio e si interrogano sul suo futuro.