Anche nei Paesi industrializzati saranno necessari interventi drastici per evitare un peggioramento della situazione
Con la fine della pandemia da Covid-19, ma anche con l’inizio di una vera e propria guerra in Ucraina, i vari Paesi del mondo hanno dovuto tirare le somme degli interventi straordinari, che si sono sommati a quelli ordinari e hanno provocato un indebitamento globale che è salito alle stelle. L’Institute of International Finance ha calcolato che questo indebitamento globale ha ormai raggiunto la cifra – dato del primo trimestre del 2024 – di 315 bilioni di dollari, con un aumento di 1,3 bilioni di dollari. La crescita più intensa è stata osservata in Paesi come la Cina, l’India e il Messico, mentre nei Paesi industrializzati il livello del debito è rimasto stabile. Comunque la situazione globale che si è venuta a creare continua a destare preoccupazioni tra gli operatori dei mercati finanziari. Segnali positivi vengono, però, dai Paesi industrializzati che dopo il picco dovuto alla pandemia sono riusciti a contenere l’aumento del debito pubblico entro limiti ragionevoli.
In pratica si è tornati a una crescita ormai strutturale che comunque in molti Paesi deve anche sopportare le conseguenze degli interventi eccezionali dovuti alla citata pandemia. Gli operatori finanziari seguono con molta attenzione l’evolversi della situazione negli Stati Uniti, Paese nel quale il debito ha raggiunto livelli da primato e necessita ora di copiosi interventi di rifinanziamento. Pur tenendo conto del rallentamento dell’inflazione e della crescita economica favorevole, si prevede a Washington un aumento ulteriore del debito del 5,6% quest’anno e del 6,1% il prossimo anno. Questo significa che nel 2024 gli Stati Uniti emetteranno prestiti statali per 11,5 bilioni di dollari, il che significa il 50% di più rispetto al periodo precedente la pandemia. Evidentemente, un intervento di questa portata lascerà tracce sensibili sui mercati finanziari internazionali. La stessa Ocse prevede che, nei prossimi tre anni, il 40% di tutti i prestiti pubblici e il 37% di quelli aziendali dovranno essere rifinanziati. Entro il 2026 scadono infatti quote di prestiti pubblici come quelli italiani (26%), quelli spagnoli (25%) o francesi (20%). L’Ocse prevede quindi un volume di emissioni di prestiti pari a 15,8 bilioni di dollari. Resta ora da vedere se ci sarà un numero sufficiente di sottoscrittori, oppure se tutta la struttura dell’indebitamento internazionale verrà rimessa fortemente in discussione.
Non si può escludere che uno scenario come quello visto in Gran Bretagna, nel settembre del 2022, possa ripetersi altrove. Allora il Governo britannico decretò forti diminuzioni di imposte, per cui i rendimenti dei prestiti a 30 anni britannici salirono in tre giorni dell’1,7% circa. Si crearono turbolenze nelle casse pensioni inglesi che costrinsero la Banca d’Inghilterra a intervenire. È un esempio di quanto potrebbe succedere sui mercati finanziari che non sono disposti ad accettare debiti pubblici senza limiti, chiedendo o un aumento dei tassi d’interesse o una riduzione dei debiti stessi. Per gli Stati Uniti si pensa che ciò non succeda prima delle elezioni presidenziali in autunno. Subito dopo, però, il problema si riproporrà, esigendo un forte risanamento, per non correre il pericolo di un aumento del premio di rischio per i prestiti pubblici americani. La pandemia e il conseguente sostegno pubblico a persone e aziende hanno soltanto accelerato una tendenza che era in atto da qualche anno. Nella maggior parte dei Paesi il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (Pil) era già fuori norma per cui il rientro diventa ancora più difficile. Ma nessun responsabile politico o economico può permettersi di prolungare nel tempo questa situazione. Questo atteggiamento provocherebbe sicuramente alti tassi d’inflazione che colpirebbero tanto i consumatori, quanto le aziende e renderebbero ancora più difficile qualsiasi politica economica.
È infatti illusorio credere che un’inflazione elevata possa contribuire a contenere il debito pubblico, anche solo perché ne aumenta i costi con interessi più elevati. Né basterebbero tassi di crescita economica più alti, soprattutto se sostenuti dagli Stati, quindi con debito ancora in aumento, soprattutto sul lungo periodo. Rispetto a tempi passati, l’attuale ciclo economico è già durato molto di più. E anche se ha permesso di evitare una recessione, non potrà continuare a lungo su questi ritmi. Per farsene un’idea basta considerare alcune situazioni anche in Paesi a noi vicini, che oltre tutto dovrebbero rispettare la norma europea che vuole un debito al massimo del 60% del Pil. L’Italia, per esempio, è al 139%, ma la Germania, che ha una crescita vicina a zero, è al 63%, mentre Francia e Spagna tendono a seguire l’Italia. La Commissione Ue ha ora reagito avviando una procedura per debito eccessivo nei confronti di sette Paesi membri, tra cui anche la Francia e l’Italia. Ma anche altri grandi Paesi contribuiscono ad aumentare le tensioni in questo campo: gli Stati Uniti saranno quest’anno al 123%, mentre anche la Gran Bretagna salirà al 104%. Corsa a parte dovrà fare ancora una volta il Giappone, con un debito al 254% del Pil. Ma ci sono anche Paesi più virtuosi, tra i quali la Svizzera che, grazie al freno all’indebitamento e a un debito pubblico prima della pandemia molto vicino allo zero, è al 36%, mentre anche la Norvegia è al 38%, secondo le previsioni per quest’anno del Fondo monetario internazionale.