«Lasciarli affogare non è un’opzione»

by Claudia

L’esperienza di Maria, una medica svizzera impegnata nelle operazioni di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo

Ha trent’anni, si chiama Maria. È una medica d’emergenza, è svizzera. Vive tra Berna e Basilea. È la responsabile del Gruppo medici a bordo della nave Humanity 1, della ong tedesca Sos Humanity. L’abbiamo accompagnata in alcune operazioni svolte tra maggio e giugno. Stiamo pattugliando con i binocoli dal ponte di comando le acque internazionali davanti alle coste della Libia per soccorrere i migranti su imbarcazioni di fortuna prima che vengano catturati dalla Guardia costiera libica. Rifornita di motovedette, si adopera per riportarli indietro in punti di raccolta dove – secondo testimonianze – è facile incappare in frustate, stupri e violenze di vario genere. Maria lavora con Letizia, un’infermiera italiana di Marina di Carrara; Izaro, un’ostetrica basca; Sabrina, una psicologa tedesca; e un altro medico, Nico, anche lui tedesco, che governa uno dei gommoni veloci di salvataggio (rhib si chiamano). Tutti giovanissimi. Maria in questo viaggio coordina le prime cure mediche per un centinaio di persone appena tirate fuori dall’acqua, cura le bruciature della miscela ustionante di carburante e acqua di mare, si occupa di far rinvenire persone disidratate e in ipotermia. E tenta inutilmente di rianimare Mawa, una bambina di cinque mesi della Guinea issata a bordo già senza vita. È rimasta in un barchino alla deriva almeno tre giorni, senz’acqua, senza cibo, senza latte, con altre decine e decine di persone disidratate, stordite dalle esalazioni di benzina. Mawa è morta di stenti nelle braccia della mamma davanti agli occhi della sorellina Fatima di 3 anni.

Sarà Maria a parlare con la mamma dagli occhi sbarrati, sotto shock. Sarà Maria ad occuparsi con una calma, un rispetto e una competenza impressionanti sia della madre sia di Fatima. Il ponte di coperta è ormai pieno di naufraghi, tutti issati nelle ultime 48 ore, dormono ovunque ci sia spazio per stendersi, tra le docce e i container. «Perché sono a bordo?», esordisce Maria. «Perché lasciarli affogare non è una ipotesi decente, perché il diritto a vivere è un diritto umano basilare. Sono una medica e nel Mediterraneo centrale c’è una guerra in corso contro persone stipate in barchini alla deriva. In questo mare spariscono persone ingoiate dalle onde tutti i giorni, ci sono continui naufragi di cui non sappiamo nulla soltanto perché non vediamo i corpi. Otto anni fa sono andata sull’isola di Lesbo, in un campo profughi, come volontaria. Ero una studentessa. Era pieno di migranti sopravvissuti a naufragi nel Mediterraneo nel tentativo di venire in Europa. Io nel frattempo mi sono laureata in medicina, ho iniziato a lavorare in ospedale e nel Mediterraneo si vedono le stesse atrocità, tutti i giorni, e adesso è pure peggio perché le notizie dei naufragi quotidiani sono sparite dai notiziari».

C’è un alto livello di assistenza sulla Humanity 1, una piccola clinica che funziona come ospedale da campo. Maria insegna a tutto l’equipaggio a fare rianimazione, ad usare il defibrillatore. Racconta: «Sento a terra commenti del tipo: “Addirittura li curate a bordo, li avete salvati, li avete sottratti a morte certa, c’è bisogno di avere una clinica? Loro devono essere contenti di non essere morti, perché avere cure mediche a bordo?”. Ecco, questa è una discussione assurda che io non capisco. Quello dell’accesso a cure di qualità è un diritto umano basico. Punto. Gli esseri umani si salvano e si curano. I medici devono fare questo». Sono le tre di notte. Un fascio di luce bianca tiene illuminato nel buio un gommone sgonfio stracarico. Un grande mercantile l’ha visto e s’è fermato ad aspettare. Troppo grande per avvicinarsi senza rischi, inadatto al soccorso, l’ha tenuto sott’occhio finché otto ore dopo sono partiti dalla Humanity 1 i gommoni con i giubbotti di salvataggio. Arriva dal Centro di comando delle capitanerie di porto di Roma l’autorizzazione al salvataggio: trasbordo. Sono 42 persone, 22 minori, 19 dei quali viaggiano da soli. In mare da tre giorni, questa è la seconda notte alla deriva. Il motore s’è rotto. La linea di galleggiamento a poppa è molto bassa, soffia vento forte, entrano ondate di acqua salata. Sono storditi dalle esalazioni di carburante. Hanno tutti freddo, sono disidratati, fradici. Uno per uno vengono issati a bordo.

Sotto la luce tremolante del neon, una fila di volti giovanissimi in sfacelo. Tariq è molto magro, un viso da bambino murato nella paura. Non parla, non parlerà per tutta la notte, trema. Dalla fila per le coperte esce barcollando un ragazzo. Ha fame, le mani secche di salsedine non tengono la presa del kit di salvataggio. Non riesce ad arrivare da solo in bagno. Ha paura a chiudere la porta. Sale un quindicenne con la maglia azzurra della nazionale di calcio dell’Italia. Si siede abbracciato a uno più piccolo con il giacchetto acetato rossonero del Milan. Un ragazzino alto alto e magro magro gira a piedi nudi in cerca di un coltello per aprire lo scotch in cui è avvolto il suo cellulare. «Maman, maman», sussurra, vuole dire alla mamma che lui è vivo, che ce l’ha fatta. Mostra la T-shirt bianchissima sotto il giubbotto: «Venice». Altro ragazzino, altra maglia da calcio: Ozil, 8 anni. Si siedono sulle panche in silenzio, guardano la spuma bianca delle onde sullo scafo di poppa, il più grande indica due alte fiamme arancio all’orizzonte, piattaforme petrolifere, qualcuno dice: Libia. Un istante di panico. Il terrore di essere riportati indietro.

È mattina presto. Di turno al binocolo sul ponte c’è Izaro, l’ostetrica. Grida. C’è un puntino nero sul filo dell’orizzonte. Scopriremo poi che sono 28 persone, 2 bambini di 4 e 6 mesi, una di due anni, una donna incinta, persi tra le onde in una barca di legno blu di 5 metri. Sono partiti la sera prima dalla costa libica. Il piede del motore s’è staccato, sono rimasti senza elica. Alla deriva. Lanciamo i rhib. Il primo a tornare indietro è pieno di ragazzi giovanissimi, neri. Due braccia spingono sulla scaletta una ragazza con un lungo vestito stampato giallo, rosso e nero. Dalla nave due mani si sporgono, la afferrano. Ce l’ha fatta. Si getta a terra in ginocchio, piange, grida, un urlo di gioia. Sua figlia, di pochi mesi, già a bordo, la guarda in silenzio, non piange. Il suo sguardo si muove serissimo dalla mamma con la fronte bagnata, sul ponte, al mare là fuori. La ragazza è ancora seduta sui talloni, faccia a terra, singhiozza e ride. Immobile, sembra lontana da tutto, fisicamente svuotata. Alza gli occhi, ripete in francese: «Non immaginavo mai, Libia, non immaginavo mai». Infine si lascia tirare su, cammina scalza fino al grande spazio riservato a poppa a donne e bambini. Poggia un piede incerto oltre la soglia, guarda le pareti dipinte, il fasciatoio, i pannolini. Guarda la porta, esita. Poi entra: il lavandino con l’acqua potabile, lo specchio, i grandi letti a castello, le coperte, lo shampoo. «Pour moi?». Per me? Si siede, accarezza il materasso blu con la mano, si alza, cammina, si risiede, si rialza, si spoglia, entra nella doccia. Spalanca il box, fa cenno di avvicinarsi. Sotto l’acqua che scende, dice «merci» con un sorriso che strazia.

Nico, il medico a bordo del primo gommone, racconta: «Quando ci siamo avvicinati l’odore di carburante era molto forte. Ho visto una selva di mani, qualcuno pregava, qualcuno rideva, tutti strillavano. Più forte di tutti il pianto dei bimbi. Ho una distanza professionale da tutto nei rhib per agire, ma il pianto dei bambini in mezzo al mare lo senti cadere duro in mezzo al cuore». Dice: «C’erano cinque delfini sotto il nostro rhib, uno ha fatto un salto alto a prua mentre ci avvicinavamo». Una donna robusta e pesante all’improvviso si è lanciata con le braccia e ha afferrato una cima del gommone per passare da sola, non voleva aspettare il trasbordo. Un’onda s’è alzata, ha allontanato il gommone dalla barca, è rimasta col corpo fuori, stava per cadere in acqua. L’ha ripresa Fares, siriano, che con uno strattone l’ha ributtata dentro. «Ho visto tanto vomito dentro la loro barca – dice – tanto vomito e tanta urina».

La storia di Sami: una breve tregua tra due inferni

Nella poppa deserta prima dell’alba Sami non ha pace. Nascosto sotto il cappuccio della felpa si siede, si alza, si siede, si alza. Lui era in una barca di legno rimasta alla deriva senza il piede del motore soccorsa qualche giorno prima. Senza elica, senza propulsione in mezzo al mare, è morte certa. Lui l’aveva capito ed è ancora dentro quel terrore. Ha quasi 30 anni, viene dal centro Africa, ha studiato management e finanza all’università. Parla bene inglese e francese. Le mani liscissime, sempre in movimento: «Ho visto il motore spezzato e ho capito: I’m over. È finita». «Ho pensato: moriamo tutti». Per essere abitabile la disperazione deve avere dei livelli, dei gradi successivi, lui stava sfiorando l’ultimo, quello in cui impazzisci di terrore. «Non ne potevo più di non andare da nessuna parte – dice – mi sarei buttato. Quando vi abbiamo visto da lontano abbiamo pensato che erano i libici che ci portavano in prigione. Invece no, eravate voi».

Trema. Non riesce a tacere, lui vuole raccontare della Libia, dell’ultimo anno passato a Tripoli. «Questa è la mia quinta volta. Le altre quattro mi hanno catturato quelli della Guardia costiera libica. Dicevano: animali, voi animali. Ho vomitato quando mi hanno preso su dal gommone. Uno con quella cosa lì mi frustava, gridava: ora mangi tutto, mi ha fatto mangiare tutto il vomito». Indica la cima, la mano gli trema, la voce gli schizza in alto. Al ragazzo che viaggia con lui, se gli dici «ora sei al sicuro, andiamo in Italia» per un attimo lo sguardo gli si illumina. A Sami no. Ha paura. Sembra affacciato a un abisso. Dice: «Non so cosa c’è lì, cosa succede lì, non so com’è». Lui non conosce la selva di hotspot affollati, centri per il rimpatrio, luoghi dai nomi vari con cui l’Italia accoglie i migranti. Ma sa, intuisce, che questo ponte di legno, questa nave blu, sono una breve tregua tra due inferni, come una sigaretta tra due checkpoint.

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