Il ritorno del subcontinente

by Claudia

Tendenze: più attenzione in Occidente al vivacissimo cinema indiano

Il Grand Prix al recente 77° Festival di Cannes, secondo premio per importanza, al raffinato All We Imagine As Light di Payal Kapadia ha riportato l’attenzione sul cinema indiano. La più grande industria cinematografica mondiale, la cui immagine è spesso legata al folklore di Bollywood, era assente dal concorso della Croisette dall’ormai lontano 1994, l’anno della Palma a Pulp Fiction, quando fu rappresentato dal dimenticato Swaham di Shaji N. Karun. «Non aspettate altri 30 anni a invitare un altro film indiano in competizione» ha affermato durante la premiazione la regista, al suo secondo lungometraggio. All We Imagine As Light, una delle sorprese della rassegna, è una storia di donne tra città e villaggi, tra passato e futuro, tra grattacieli e scogliere, tra relazioni da lasciare alle spalle e altre da coltivare. Prabha è un’infermiera caposala, il cui marito è partito da anni per la Germania, mentre Anu lavora all’accettazione dello stesso ospedale e cerca di andare incontro ai bisogni dei pazienti e dei richiedenti, soprattutto delle donne. Anu manda soldi a casa e non ne mette da parte abbastanza per pagare l’affitto, mentre si sparge la voce che frequenti un giovane musulmano e la cosa può rovinare la sua reputazione. Così le due donne si offrono di accompagnare la cuoca Parvaty al villaggio sul mare. L’inizio è quasi documentaristico, con immagini di una Mumbay multiculturale e in continua trasformazione: diranno che la metropoli è un sogno per chi arriva (tutte e tre provengono dalla provincia), mentre Parvaty sostiene che le persone costruiscono grattacieli sempre più alti perché pensano di arrivare a Dio in quel modo. La regista tocca temi sociali con belle immagini che stemperano i drammi, con un bel tocco e un ottimo trio di protagoniste: Kani Kusruti, Divya Prabha e Chhaya Kadam.

Quest’anno a Cannes il subcontinente è stato presente in maniera significativa anche nella sezione parallela «Un certain regard» con due titoli sempre riguardanti le donne, i pregiudizi verso i musulmani e il rapporto tra centri urbani e campagna. The Shameless di Kostantin Bojanov è una pellicola indiana in tutto e per tutto sebbene il regista sia bulgaro e abbia ricevuto il premio di miglior attrice per Anasuya Sengupta, che interpreta Renuka, prostituta in fuga dopo aver ucciso un poliziotto a Delhi. Un thriller cupo ambientato nei bassifondi che lavora troppo per accumulo di situazioni, tra denuncia sociale (la politica corrotta, un candidato sindaco nazionalista che vorrebbe approfittare di una diciassettenne). Temi che tornano anche nell’originale poliziesco Santosh di Sandhya Suri, più convincente e con un ottimo finale. Alla giovane protagonista, rimasta vedova dopo l’uccisione del marito poliziotto, non resta che prenderne il posto e arruolarsi, finendo a occuparsi della scomparsa di una quindicenne intoccabile. Santosh si accorgerà che ci sono due tipi di intoccabili, quelli che stanno in basso e quelli che stanno al di sopra delle leggi. Film che si interroga sulla condizione femminile, le conquiste sociali e la giustizia.

Una donna della casta dalit, intoccabile, è una delle protagoniste de La treccia della francese Laetitia Colombani. Tratto da un romanzo best-seller della stessa regista, il film incrocia tre storie di donne apparentemente lontane tra loro in India, Puglia e Canada. Anche quest’opera parte in maniera laboriosa e un po’ didascalica, ma migliora quando si chiarisce il legame tra le vicende. Il cinema indiano sforna ogni anno migliaia di titoli nelle decine di idiomi parlati, dall’hindi di Mumbau al tamil, che ha il suo centro di produzione a Chennai, al bengalese con gli studios nei pressi di Calcutta, oltre alle opere indipendenti che sfuggono alla catalogazione. I grandi festival europei sono stati fondamentali per scoprire e far conoscere i maggiori cineasti indiani e ancor oggi sono cruciali per mostrare i vertici della produzione, al di là delle rassegne specialistiche come il River to River – Florence Indian Film Festival o l’Uk Asian Film Festival di Londra.

Per certi versi il cinema indiano è ancora legato al nome del grande Satyajit Ray, Leone d’oro alla carriera e Oscar alla carriera nel 1992, che venne folgorato dal Neorealismo vedendo Ladri di biciclette a Londra. Nella sua produzione spicca la trilogia di Apu composta da Pather Panchali – Il lamento sul sentiero, Aparajito e Apur Sansar – Il mondo di Apu.

Tra i maggiori cineasti figurano Ritwik Ghatak, noto per la trilogia Meghe Dhaka Tara, Komal Gandhar e Il fiume Subarna sulla partizione del 1947, Mrinal Sen, attivo dagli anni 60 ai 90 e premiato a Venezia e Cannes, e Govindan Aravindan (il poco visto e bellissimo Kummatty del 1979, restaurato dalla Cineteca di Bologna).

Un’annata particolare è stata il 2001, con Monsoon Wedding di Mira Nair vincitrice del Leone d’oro e lo spettacolare Lagaan, Once Upon a Time in India (2001) di Ashutosh Gowariker che conquistò la Piazza Grande di Locarno e fece conoscere Bollywood al pubblico occidentale; Piazza Grande che anche quest’anno avrà un ospite d’onore invitato per dare risalto al cinema indiamo. Altri titoli che hanno avuto visibilità sono Devdas (2002) di Sanjay Leela Bansali con Ashwariya Rai e il melodramma Lunchbox (2013) di Ritesh Batra.