La libertà di scegliere ha un’unica via: il dialogo

Provate a immaginare un uomo che, sopra ogni cosa, ama il mare. Lo ama per moltissimi motivi, ma sopra a tutti ci sono quel senso e quella consapevolezza di libertà che solo il mare sa dare. Lo ama così tanto il mare che, a un certo punto della vita, ne fa la sua terra che poi inizia a percorrere – e per anni percorrerà – a bordo di un veliero, il Rustica.

Bene, adesso che vi siete fatti un’idea – seppur parziale – di quest’uomo, immaginatevelo sorpreso dalla pandemia di Covid-19 sulla terra ferma, per la precisione a Helsingborg, dove vive ancora adesso quando si trova in Svezia, Paese nel quale è nato e dove fino a pochi anni prima, all’università di Lund, insegnava letteratura francese. A Helsingborg ci è arrivato in aereo (e non per mare) dall’Italia e in pochi giorni la sua vita – come quella della quasi totalità degli umani del pianeta – è mutata. I confini nazionali vengono chiusi, i contatti tra persone si azzerano e la segregazione diventa la vita nuova. Il mare? Dista solo 500 metri da casa. Qualche volta diventa l’unica possibile – e breve – via di fuga da un presente che parla di libertà limitata. E per il resto del tempo che fare? Si chiede allora l’uomo, il professore, lo scrittore 68enne che ama il mare. Abbiamo chiesto direttamente a lui, a Björn Larsson, quale fu la risposta che si diede in quella primavera inoltrata del 2020.

Non fu una risposta immediata. Tenga presente che la mia casa, a Helsinborg, è un piccolo monolocale pieno di libri, sostanzialmente un pied-à-terre… Quando ho capito che non potevo raggiungere mia figlia in Danimarca, che non potevo visitare mia madre che viveva in una struttura, che non avrei nemmeno potuto tornare in Italia (dove vivo con la mia compagna) perché non c’erano voli, mi sono detto che forse era giunto il momento di mettere ordine nei miei pensieri raccontandoli in un libro attraverso una storia che non fosse solo un’interpretazione letteraria dell’umanità e del suo significato. È in un certo senso grazie alla pandemia se è nato questo mio Essere o non essere umani – Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi, che è un saggio filosofico-scientifico e non l’ennesimo romanzo.

Mi permetto di osservare che già i personaggi dei suoi romanzi favoriscono – tutti e ciascuno a modo suo – la riflessione sull’essere umano dell’umano…

Grazie, ma… questo mio libro non è nato nei sei-sette mesi di clausura da pandemia. Questo libro è il frutto, il condensato, oserei dire la summa di oltre quarant’anni di riflessioni, ricerche, letture e scelte che mi hanno portato, finalmente, ad accettare che sì, la libertà assoluta non esiste, ma ciascun essere umano dispone di un margine di scelta che gli consente di concorrere alla realizzazione di un mondo migliore, più umano.

Insisto: mi pareva di aver già trovato nelle parole del papà di Marcel (Il porto dei sogni incrociati, Iperborea 2001) la via da seguire per essere o non essere umani.

Mi fa piacere perché… sì, nel discorso del papà di Marcel c’è molto del senso di quest’ultimo libro. Quando afferma che «l’uomo è diventato umano nel momento stesso in cui ha imparato a servirsi delle parole o delle immagini per parlare con i suoi simili di qualcosa che non avevano sotto gli occhi» propone, nel romanzo, uno dei punti centrali di questo saggio. E non è un caso perché la semantica, la scienza del significato, è una delle questioni che mi appassiona e sulla quale mi interrogo sin dagli anni giovanili. È grazie alla teoria del significato – che avevo elaborato quindici anni prima nel saggio Le bon sens commun: remarques le rôle de la (re)cognition intersubjective dans l’épistémologie et l’ontologie du sens – se sono riuscito a individuare le implicazioni importanti che concorrono nel definire ciò che è umano nell’essere umano.

Restiamo ai significati. Quanta parte di natura, e quanta di cultura, ci sono, a suo parere, in un essere umano?

Penso che in ogni persona esistano entrambe (natura e cultura), ma la parte, la percentuale di ciascuna di esse, varia a dipendenza delle persone. Non si può dire: 30% natura e 70% cultura (o viceversa). Sarebbe in ogni caso sbagliato. Esemplificando: fare figli e prendersi cura dei bimbi fa chiaramente parte della «natura» e non è una specificità dell’essere umano. Se invece una donna decide di non avere figli, questa decisione appartiene di fatto alla nostra specificità, dunque alla «cultura». Quel che però è certo è che in ogni essere umano sono presenti sia la natura sia la cultura e che un’unica scienza – che questa sia l’antropologia, la fisica quantistica, la filologia oppure ancora la biologia, ma nemmeno la filosofia e men che meno l’astronomia – non può spiegare questa complessità. Non esiste un’unica scienza che abbia sufficienti parole, immagini e significati in grado di descriverla.

È per questo che lei, in Essere o non essere umani, le passa in rassegna – e le smonta – praticamente tutte (le scienze)?

Vede, da tempo penso che uno dei problemi della società contemporanea sia la frammentazione e l’iper-specializzazione del sapere. Io, personalmente, sono un eclettico – me ne accorsi quando dovetti scegliere all’università quale via seguire e mi trovai a passare dalle scienze naturali alla filosofia per approdare poi a linguistica e letteratura – e, proprio per questo, cerco da sempre di trovare le parole che uniscono le varie scienze piuttosto che quelle che le rendono esclusivo territorio degli adepti. Diciamo che nel mondo contemporaneo mi manca quell’enciclopedismo che permetteva una visione sferica degli umani e dei loro saperi e che in questo libro, passo dopo passo, cerco di dimostrare che quella libertà, quel margine di scelta del quale ciascuno dispone, è ciò che può garantire la sopravvivenza del pianeta e dell’umanità che del pianeta costituisce la coscienza della sua stessa esistenza.

È vero, non ho letto tutti i suoi libri, ma so che come molti ho apprezzato i suoi romanzi: dal primo tradotto in italiano (La vera storia del pirata Long John Silver) a Il Cerchio Celtico, a I poeti morti non scrivono gialli, al già citato Il porto dei sogni incrociati. Forse per questo le chiedo: perché scrivere un saggio?

Perché nei romanzi ho detto quello che dovevo – e volevo – dire a quelli che sono già d’accordo con la mia visione del mondo umano. Il romanzo parla il linguaggio delle emozioni. Il saggio, invece, segue le regole della ratio, del dubbio motore del ragionamento, della logica. Bref: ho sentito il bisogno di scrivere questo saggio per raggiungere e avvicinare anche quelli che non leggono romanzi e, come preciso nelle prime pagine citando Robert Graves, «devo avvertire i lettori che questo resta pur sempre un libro molto difficile e molto singolare», ma, a differenza di quanto asserisce Graves, «mi auguro (ardentemente) di venire letto anche da chi ha una mente rigorosamente scientifica». Tutto ciò con l’obiettivo di raggiungere, attraverso la parola e il dialogo, la comprensione reciproca.

Björn Larsson, nella super bibliografia che correda il suo Essere o non essere umani ci sono anche tre suoi saggi. Gli altri 221 libri li ha proprio letti tutti?

«Certo che li ho letti tutti. Come le dicevo, questo libro non nasce in sei-sette mesi di clausura forzata, ma è il prodotto dei pensieri, delle riflessioni e delle conclusioni di una vita, della mia vita».

Mi consenta di tornare al mio libro del cuore e al suo protagonista, Marcel. Confesso di aver pensato fosse il suo alter ego…

«No, Marcel non è il mio alter ego perché io non posso essere Marcel. Marcel vive nel presente e nel presente c’è realtà, non fantasia e quindi Marcel non può scrivere romanzi. E, badi bene, non è detto che io non voglia essere Marcel, ma… se fossi Marcel cesserei di scrivere romanzi».

… e sarebbe un vero peccato…

«Non è la prima donna che me lo dice e mi sono spesso interrogato sul motivo per cui le donne sappiano cogliere, nei romanzi, i messaggi che ne costituiscono l’essenza. Ho scoperto che il motivo è semplice: le donne applicano la filosofia alla vita reale. Le donne portano la letteratura di finzione sulle loro spalle, la vivono quotidianamente: nel bene e nel male. Certo possono leggere un saggio, ma è il romanzo il loro genius loci ed è bello che sia così».

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