Pierluigi Tami e la gatta frettolosa

Immagino che il direttore delle squadre nazionali svizzere di calcio conosca i precetti della saggezza popolare. Del resto una squadra di gattini ciechi, come potrebbe centrare la porta? Lo scorso autunno, la Nazionale rossocrociata aveva concluso l’agevolissimo girone di qualificazione agli Europei, con una serie imbarazzante di pareggi e sconfitte contro avversari palesemente inferiori. Da più parti si era invocato l’esonero del CT Murat Yakin. Pier Tami si era preso del tempo per riflettere, e per maturare l’idea che la Svizzera avrebbe affrontato la rassegna continentale con lo stesso condottiero. Questa decisione, unitamente all’inserimento nello staff di Giorgio Contini, è stata probabilmente la chiave di volta del cammino rossocrociato in Germania. La fiducia ottenuta e la condivisione delle responsabilità hanno verosimilmente rinforzato l’autostima di Yakin. Da allora le ha azzeccate (quasi) tutte: umanamente e tatticamente. Sia pure senza snaturarsi, ha persino modificato il suo linguaggio del corpo. I sorrisi, gli abbracci, la gestualità pacata e nel contempo empatica nei confronti dei suoi ragazzi, le sfilate sotto la curva per applaudire i fans prima di ogni sfida, ce lo hanno fatto sentire più amico.

«Azione» si stampa il venerdì, perciò mentre scrivo non so chi – tra Spagna e Inghilterra – avrà alzato al cielo la Coppa. Avremmo potuto esserci noi. Non sarebbe stato uno scandalo. Sappiamo che nel calcio, spesso, il caso e i dettagli fanno la differenza. Come quei due centimetri che, contro gli inglesi, a un amen dal fischio finale, avrebbero potuto consentire al corner calciato da Shaqiri di finire in rete, invece di stamparsi sull’incrocio dei pali. O come la borraccia sulla quale il portiere britannico aveva segnato come e dove i rossocrociati calciano solitamente i rigori.

Nel 1994, il difensore colombiano Andrés Escobar fu assassinato al rientro in patria, per aver siglato l’autorete che aveva sancito l’eliminazione dei Cafeteros dal Mondiale statunitense. Il 6 luglio scorso, a nessuno, in tribuna e a casa, è venuto in mente di crocifiggere Manuel Akanji per l’errore decisivo dagli undici metri. Tutti se lo sarebbero stracoccolato, come hanno effettivamente fatto compagni e avversari sul campo. Non solo perché il centrale del Manchester City è stato uno dei migliori sull’arco di tutta la manifestazione. Ma soprattutto perché tristezza e frustrazione hanno presto lasciato il posto a gratitudine e consapevolezza.

Per la prima volta nella storia, i nostri calciatori hanno saputo dare sostanza ai nostri sogni. Mai come nelle sfide contro Germania, Italia e Inghilterra abbiamo percepito che fra le grandi c’è anche la piccola Svizzera. Senza retorica e senza enfasi. Semplicemente perché sul campo è emersa la nostra capacità di dettare i ritmi e le regole del gioco. Un autentico ribaltone. Eravamo abituati a subire la tecnica, la qualità e il carisma dei nostri avversari più blasonati. Ci siamo scoperti padroni del campo.

Ci siamo goduti lo spettacolo proposto da una Nazionale che ha saputo proporre una leadership condivisa. Senza stelle luminose come Bellingham o Mbappé, i nostri ragazzi hanno agito come un gruppo coeso e solidale. Sommer, Akanji, Rodriguez, Shaqiri, Freuler, Schär, Widmer e capitan Xhaka sono la vecchia guardia che ha messo in campo esperienza e ha offerto stabilità. Alcuni di loro, probabilmente, non affronteranno la campagna che porterà ai Mondiali del 2026 in Canada, Messico e Stati Uniti. Alcuni invece saranno l’anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo corso. È fondamentale che il futuro gruppo non perda serenità, coesione, fierezza, fiducia e consapevolezza dei propri mezzi. Dovrà tenere sempre ben presente che su cinque partite, l’unica sconfitta è arrivata ai rigori, dopo aver fatto tremare l’Inghilterra per 120 minuti.

Per tre settimane, i ragazzi di Murat Yakin hanno offerto un contributo importante alla coesione nazionale. Le polemiche sul Salmo, sui passaporti freschi di firma, sulle origini e sui colori della pelle, sembravano confinate a un passato remoto. In quest’epoca in cui la divisione ha spesso la meglio sull’aggregazione, è stata una boccata di ossigeno.

Questo concetto lo dovremmo tuttavia spiegare anche ai buontemponi che, in occasione della sfida contro l’Italia, hanno esposto la scritta: «Lasciateci vincere, vi daremo il Ticino». Ma anche questo è un dettaglio. Molto probabilmente avrà fatto rigirare Napoleone Bonaparte nella sua tomba parigina, ma rimane pur sempre un dettaglio, che non può scalfire l’essenza della nostra Willensnation.

Related posts

Il giardino all’inglese di Desio

Il castello di Neuschwanstein e il richiamo del perturbante

Un’eredità da capitalizzare