Ancora una possibilità per i democratici

by Claudia

USA-1, l’attentato in Pennsylvania aiuta un poco Trump nella corsa alla Casa Bianca, ma la speranza di fermarlo resta

AGGIORNATO AL 22 LUGLIO – A poco più di 100 giorni dal voto americano del 5 novembre, come valutare l’impatto dell’attentato a Donald Trump e della convention repubblicana a Milwaukee? L’impressione è di un beneficio netto per Trump, ma non bisogna precipitarsi a concludere – come alcuni stanno già facendo sia in America sia all’estero – che i giochi siano fatti e che lui abbia ormai la vittoria in tasca. È bene ricordare alcune ragioni di cautela. Le ultime elezioni presidenziali americane ci hanno restituito l’immagine di una Nazione spaccata in due; vittorie e sconfitte sono state spesso determinate da piccoli spostamenti percentuali, pochi voti hanno assegnato alcuni degli Stati «in bilico». Non sembra che l’America del 2024 sia veramente cambiata. Le due tribù che votano democratico e repubblicano diffidano l’una dell’altra, il giorno dell’elezione si mobilitano «contro» un avversario più che a sostegno del proprio candidato. Questo è più vero che mai nell’era Trump.

L’ultimo che riuscì a suscitare un vero entusiasmo in proprio favore fu Barack Obama, ma solo in occasione della sua prima elezione nel 2008; il «fenomeno Obama» si era già ridimensionato e normalizzato nella rielezione del 2012 quando vinse contro Mitt Romney. Se questa è la situazione, anche le ultime débacle di Joe Biden (disastrosa performance nel duello tv contro Trump; assedio da parte di tanti democratici che gli chiedono esplicitamente di ritirarsi) – che nel frattempo si è ritirato – non hanno l’effetto di spostare tanti voti da una casella all’altra. La stragrande maggioranza degli elettori democratici non si lascerebbe convincere per nessuna ragione al mondo a votare Trump, e viceversa. Tutto ciò che i media raffigurano come tempeste, colpi di scena, shock, si traduce in movimenti elettorali modesti. A spostarsi forse saranno i pochi indecisi, una percentuale assai modesta. Può esserci un altro tipo di effetto elettorale, quello che si riflette nella mobilitazione della propria base. Per quanto gli elettori democratici non siano disponibili a passare al campo avverso, una piccola parte di loro potrebbe rinunciare a votare se il proprio candidato li deludesse. Le percentuali di affluenza alle urne possono variare, è proprio su questo che agì il fattore Obama nel 2008, quando aumentò la partecipazione elettorale dei giovani.

Fatte queste riserve che escludono enormi spostamenti di voti e vittorie a «valanga», vengo all’attentato in Pennsylvania. In qualche limitata misura aiuta Trump. In diversi modi. Anzitutto c’è l’impatto durevole dell’immagine «iconica» che ci accompagnerà fino al 5 novembre: Trump colpito e ferito, con il viso sanguinante, che si rialza, tende il pugno verso la folla dei sostenitori, grida «combattete!» prima di seguire la scorta. Rimarrà come un episodio emblematico di un leader indomito, grintoso, che di fronte al pericolo ha dimostrato carattere, coraggio, presenza di spirito.

Un secondo vantaggio si è avuto sulla convention repubblicana di Milwaukee. Poteva essere un evento di ordinaria amministrazione, la ratifica scontata della candidatura di Trump, con scarsa attenzione dell’opinione pubblica. Il fatto che la convention si sia aperta 48 ore dopo l’attentato ha regalato a quell’evento una visibilità enorme, quindi un momento di poderosa pubblicità per il partito repubblicano. I notabili del Grand Old Party si sono schierati a sostegno di Trump con un fervore e un entusiasmo moltiplicati dall’attentato, compresa quella Nikki Haley che lo aveva osteggiato fino all’ultimo.

Il terzo vantaggio è l’opportunità per la destra di «restituire» alla sinistra le accuse di istigazione alla violenza. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 si era svolto un processo pubblico a senso unico, sui media progressisti sembrava che la violenza eversiva fosse un male esclusivo del trumpismo. Quel processo era abbastanza squilibrato perché cancellava la memoria di quanto accaduto nell’estate 2020, quando frange di estrema sinistra avevano dato l’assalto alle istituzioni e alle forze dell’ordine, avevano incendiato e saccheggiato i quartieri di alcune città, adducendo a pretesto l’antirazzismo e l’antifascismo. Però le violenze dell’estate 2020 erano state coperte da un’ampia indulgenza, mentre l’orrore e lo sdegno per il 6 gennaio 2021 rimanevano.

Dopo l’attentato a Trump la narrazione repubblicana è passata prevedibilmente alla controffensiva. È stata riesumata, ad esempio, una copertina del magazine progressista «The New Republic» dove Trump appariva come un nuovo Adolf Hitler. Un caso fra tanti, di equiparazione del candidato repubblicano ai peggiori dittatori della storia, despoti colpevoli di grandi crimini. Addirittura lo stesso Biden in passato aveva incitato i suoi sostenitori a mettere Trump «in the bullseye», termine che indica il centro del bersaglio usato nel tiro a segno. Linguaggio usato con leggerezza, del quale Biden ha dovuto scusarsi in un’intervista successiva all’attentato. In ogni caso una parte della sinistra americana considera davvero Trump come un aspirante dittatore e un criminale: da qui a giudicare moralmente lecita la sua eliminazione fisica, il passo è breve. Delle menti fragili, in un Paese dove abbondano le armi da fuoco, possono essere sollecitate a passare all’azione. Lo scrittore Jonathan Safran Foer ha osservato, a proposito dell’attentato: «Un solo centimetro e il mondo sarebbe diverso». L’esercizio di fanta-politica merita di essere condotto fino in fondo. Quanti a sinistra avrebbero considerato l’attentatore un eroe, un difensore della democrazia, se davvero Trump è un nuovo Hitler? E quanti a destra avrebbero ricavato dalla morte di Trump un incitamento a difendersi con le armi, visto che la sinistra aveva dato il via alla guerra civile? Questo genere di analisi rimescolano le carte, impediscono di raffigurare l’America in modo manicheo dividendola tra buoni e cattivi, perché ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio.

Un segnale che l’attentato alla sua vita ha conquistato nuove simpatie a Trump viene dal mondo del capitalismo digitale. Elon Musk e altri imprenditori della Silicon Valley hanno deciso subito dopo il tragico evento in Pennsylvania (dove, non dimentichiamolo, è morto un vigile del fuoco) di annunciare delle donazioni per la campagna elettorale del repubblicano. Subito si è alzato un coro da sinistra per denunciare «il candidato dei miliardari». Anche in questo caso bisogna evitare le faziosità. Il capitalismo americano da molto tempo finanzia i democratici, assai più di quanto versi donazioni ai repubblicani. Non a caso nella propaganda trumpiana o di Robert Kennedy Jr la sinistra viene spesso dileggiata come «il partito di George Soros e Bill Gates». Comunque è falsa la leggenda che il denaro decida le elezioni: altrimenti nel 2016 avrebbe stravinto Hillary Clinton che aveva un tesoro di finanziamenti assai superiore al suo rivale. La scelta di campo di Musk e altri imprenditori della Silicon Valley non era inevitabile, è stata la risultante finale di un’esasperazione per gli eccessi della woke culture che in California ha sprigionato tutto il suo dogmatismo. In ogni caso, se Trump è in leggero vantaggio, la strada maestra per ribaltare i rapporti di forze è trovare un candidato o una candidata credibile in campo democratico. E farlo in fretta.

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