L’autore del libro è un alcolista incallito che passa le sue giornate a bere seduto alticcio ai tavoli «in stato sedentario di animazione sospesa», o nelle camere di hotel di lusso, tra camerieri che arrivano con secchielli di ghiaccio, pinze e bottiglie di Gordon’s invece che di Martini, in genere mescolato con vodka. Lo stile di Santi e bevitori (Adelphi, 2024, traduzione Mariagrazia Gini) di Lawrence Osborne è allegro e sempre un po’ sopra le righe come il reporter di viaggio, scrittore e giornalista inglese del «New York Times», autore di Il turista nudo e Bangkok, una prosa dal ritmo implacabile di un racconto dal vero scritto con la lingua del romanzo.
Il protagonista è il centro della narrazione, l’occhio alterato che guarda, riferisce, è sempre lui, il semiserio Osborne perennemente in viaggio, il quale ebbro pensa con voluttà al suo «laghetto di vodka lievemente gelatinosa», come pensa che «può darsi che le molecole d’alcol in circolo nel sangue giorno dopo giorno, notte dopo notte, con effetti al limite dell’impercettibile, facciano sentire l’occidentale libero, senza catene e superbo alla massima potenza».
Il libro, o i reportage-racconti del libro, cominciano in un sontuoso albergo di Milano dove l’autore si concede un gin tonic, «tre parti di tonica per una di gin, Gordon’s, tre cubetti di ghiaccio e un’idea di scorza di lime», come spiega perentorio al cameriere. Ma presto vengono svelate le intenzioni e il taglio delle short stories, in tutto una quindicina, diciamo pure il tema non poco intrigante, fare «un viaggio alcolico in terre astemie», un viaggio nel mondo islamico per capire dal di dentro la vita degli uomini sobri. Ma questo libro è molte cose, una confessione autobiografica di uno «cresciuto a bagno nell’alcol» in un sobborgo inglese, una passione genetica dovuta alle origine irlandesi della madre, alcolista anche lei, un saggio sulle dipendenze etiliche e sull’uso del bere nelle classi sociali europee e in special modo in quella anglosassone, ma soprattutto una dissertazione in forma di racconto sullo scontro di civiltà tra Oriente e Occidente, con tanto di dati storici, notazioni culturali, «in uno spirito di reciproca incomprensione». Avvincente, con una prosa scintillante alla Capote, seguiamo il mondano ma a volte anche squattrinato Osborne nei suoi giri eccentrici in Medio Oriente, tra descrizioni di scorci di città, aeroporti, approdi in alberghi di lusso, quando si descrive nei suoi reportage narrativi caldi e passionali ad alta tensione emotiva.
Già in viaggio verso l’isola di Giava, una notte Osborne si ferma nella città religiosa di Solo, luogo abitato da jihadisti di al-Qaida e scuole coraniche, dove i fondamentalisti islamici hanno in passato fatto attentati nei bar che mescevano vini e liquori, e al risveglio nella sua pensioncina in cerca di alcol capisce che lì è completamente bandito, «seicentomila persone e non un solo bar». Parlando con alcuni studenti in veste bianca, questi, ammonendolo severamente, gli dicono che il bere «è una piaga, una malattia dell’anima». Per difendersi, mentre passa giornate senza bere, in debito con «le chimiche dell’alcol», immagina «un alcolista musulmano», l’idea folle che gli «fa sperare che la razza umana possa salvarsi». Ma non si scoraggia, e nei viaggi successivi trova sempre un luogo dove poter bere in santa pace, a Beirut scola l’arak, al Time out, dove incontra il proprietario Jacques Tabet, che dopo avergli versato sei bicchieri di porto gli confessa: «Odio essere sobrio». Poi finisce a cena con Walid Jumblatt, «il signore della guerra druso» che produce il Kefraya, «un vino americanizzato, corposo e fruttato, più o meno ributtante».
Le avventure alcoliche in Paesi mediorientali continuano e quando a Islamabad gli chiedono perché è andato a visitare un Paese che non ha una vera vocazione turistica, lo scrittore inglese risponde «sono venuto a vedere se riesco a ubriacarmi qui», confessando: «In Pakistan, mi hanno detto, l’alcol è così vietato che ubriacarsi può essere un’avventura culturale. Chissà com’è sbronzarsi in uno dei Paesi più pericolosi e ostili all’alcol del mondo». Perché con l’ascesa dell’Islam i bar, questi templi dell’avventura etilica, di cui parla nel capitolo I bar nella vita di un uomo, elencando i suoi preferiti, «sono diventati bersagli ovvi in tutto il mondo musulmano», anche perché «l’ostilità al modo di vivere occidentale trova nell’alcol un bersaglio», anche se poi «al tempo stesso gli estremisti tollerano le decapitazioni, le droghe, l’eroina, i sequestri e coltivano l’oppio».
Instancabile, mai domo, perennemente in fuga da sé stesso, Osborne riesce a procurarsi da bere, nella fattispecie una birra, anche in Thailandia, al confine malese mentre imperversa la guerra civile, seguendo un ermafrodita mentre attraversa una via «picchiettando sui tacchi» il quale da uno stanzino gli porta una Chang, una birra locale, offrendogli subito anche il suo corpo; poi passaggi a Bangkok o all’isola di Islay, sempre in cerca di bevute, mentre a Mascate in viaggio con la fidanzata italiana la notte di Natale cerca disperatamente una bottiglia di champagne che non riuscirà mai a bere. Un viaggio irresistibile nel mondo dell’alcol e in quello interiore di chi beve, tra «proibizionisti e alcolizzati», questo libro racconta eccessi estatici ma anche gli aspetti umilianti del bere eccessivo come «l’erosione della memoria recente», perché: «La mente che si ricompone dopo una sbornia è piena di domande, ma non trova le risposte. In preda a un hangover galoppante, non ricorda proprio come sia andata a finire».
Uno degli effetti collaterali, durante e dopo la lettura, almeno in un lettore per nulla astemio come me, anzi molto aperto e favorevole alle avventure etiliche, è che si viene assaliti dalla voglia di bere forte, bere e bere un drink dietro l’altro come Osborne, maestro «dell’arte di bere senza sete», come ha definito l’alcolismo lo scrittore olandese Ilja Leonard Pfeijffer, che continua a oltranza fino a perdere completamente il controllo, senza provare mai il benché minimo senso di colpa.