Il ruolo della Cina nella crisi del fentanyl, un oppioide sintetico spacciato negli Usa da narcotrafficanti sudamericani
Di tutte le crisi sanitarie che ha avuto l’America, non c’è niente che stia uccidendo più americani tra i diciotto e i quarantanove anni del fentanyl. Una media di quasi trecento persone al giorno, sul territorio degli Stati Uniti, muore per effetto di overdose o di tossicodipendenza dal potentissimo oppioide sintetico: la crisi si sta allargando anche al Canada e al Messico, e minaccia lentamente anche l’Europa. Il fentanyl ha iniziato a circolare massicciamente alla fine degli anni Novanta, quando è stato perfezionato per la terapia del dolore nelle cure palliative, solo che poi funzionava talmente bene che ha cominciato a essere prescritto un po’ per tutto, dalle distorsioni al recupero dopo interventi chirurgici maggiori. In passato in molti, in America, hanno dato la colpa dell’epidemia di fentanyl attuale soprattutto ai medici americani, incapaci di prevedere le possibili conseguenze della prescrizione di un potente antidolorifico, che dà dipendenza nella maggior parte dei casi, anche a ragazzini. Quando le prescrizioni del medico terminavano, le persone hanno iniziato a rivolgersi al mercato nero e agli spacciatori per continuare le somministrazioni: nel giro di poco il fentanyl è diventato una delle droghe più richieste, aumentando esponenzialmente il giro d’affari degli oppioidi.
Ci sono state sentenze contro medici che prescrivevano con facilità l’antidolorifico, in cambio magari di incentivi economici illegali delle case farmaceutiche (il caso della Insys Therapeutics è stato anche oggetto di un film diretto nel 2023 da David Yates, Pain Hustlers), ma già da qualche anno il problema è diventato talmente urgente da essere una priorità della politica americana. Nel 2017 era stato l’ex presidente Donald Trump il primo a «dichiarare guerra» al fentanyl, ma al di là degli annunci, i risultati sono sempre stati scarsi: i numeri dei morti per overdose da oppioidi sintetici in America non hanno fatto altro che aumentare, con un picco tra il 2019 e il 2022. Poco meno di un anno fa l’Amministrazione Biden ha deciso di mettere in piedi una gigantesca operazione per fermare il flusso di fentanyl, dichiarata nel frattempo un’emergenza e una minaccia alla sicurezza nazionale, attraverso il rafforzamento dei controlli ai confini, la cooperazione internazionale anche con diversi Paesi europei e soprattutto tramite una sofisticata strategia diplomatica. Perché, se a spacciare sulle strade americane sono i più noti cartelli della droga sudamericani, fra Messico e Colombia, secondo diverse agenzie d’intelligence americane a fornire alle fabbriche illegali i componenti con cui «cucinare» il fentanyl sarebbe la Repubblica popolare cinese, che è quindi diventata centrale nella guerra contro la diffusione illegale dell’oppioide. La droga, nel giro di pochissimo, si è trasformata in uno dei temi più complessi da affrontare fra Washington e Pechino. Il sospetto che ci fosse anche la Cina dietro al mercato illegale della droga sintetica c’era sempre stato, ma la capacità della leadership cinese di tenere sotto controllo anche i suoi boss dell’illegalità, e in qualche modo autorizzare indirettamente anche attività illegali di questo tipo, era rimasto sempre e solo un sospetto. Fino a qualche mese fa.
Nell’aprile scorso, dopo un’indagine durata mesi, il comitato ristretto della Camera americana sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese ha pubblicato un report di cui si è discusso molto, e che rivela per la prima volta che la leadership cinese ha in effetti un ruolo nella mortale epidemia di fentanyl. «La Cina è la principale fonte geografica della crisi del fentanyl», si legge nel report. «Le aziende cinesi producono quasi tutti i precursori illeciti del fentanyl, gli ingredienti chiave che guidano il commercio illecito globale», e sarebbero proprio queste aziende ad aver beneficiato di sovvenzioni e incentivi da parte del Governo cinese, ma non solo: «Ci sono anche esempi di alcune di queste aziende che hanno goduto di visite in loco da parte di funzionari governativi provinciali della Repubblica popolare che si sono complimentati con loro per il loro impatto sull’economia provinciale». Insomma, non solo la Cina aiuta e promuove le aziende che trafficano illegalmente con i precursori delle droghe sintetiche, ma collabora sempre meno con il resto del mondo per tentare di fermarne il commercio internazionale attraverso canali illegali e il dark web. È anche per questo che nel novembre scorso, quando per la prima volta dopo un anno si incontrarono in California il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping, uno degli argomenti chiave in discussione tra i due era proprio la guerra al fentanyl. A distanza di otto mesi da quell’incontro, sembra che la Cina stia iniziando a fare dei passi concreti verso la collaborazione con l’America sull’emergenza: la scorsa settimana il «Wall Street Journal» ha scritto che negli ultimi mesi le autorità cinesi «hanno silenziosamente bloccato alcuni venditori di precursori chimici utilizzati dai cartelli messicani per produrre il fentanyl, e dicono di stare per imporre le nuove normative restrittive su tre ulteriori sostanze chimiche».
Non solo: sulla base di informazioni d’intelligence condivise con l’America, la Cina il mese scorso ha collaborato a una indagine transnazionale che ha colpito una complessa partnership tra il cartello messicano Sinaloa e un sistema di riciclaggio di denaro cinese. Ma naturalmente il problema è che questo equilibrio di cooperazione fra America e Cina potrebbe fermarsi in qualsiasi momento, dicono gli esperti, soprattutto in caso di criticità politiche o come ricatto da parte di Pechino. Anche secondo media statali cinesi come il «Global Times», la crisi del fentanyl diventa un problema politico: l’America non si fida di noi e ci accusa di continuo. Secondo Andreas Kluth, editorialista di Bloomberg che si occupa di sicurezza americana, se c’è qualcuno che sa quanto droghe e narcotici possano essere usati come un’arma geopolitica, sono i cinesi: «Nel Diciannovesimo secolo la Gran Bretagna vendeva alla Cina l’oppio coltivato in India per finanziare le importazioni di tè cinese nell’Impero britannico. Quando i cinesi cercarono di fermare questo sordido commercio che stava facendo ammalare e corrompendo il paese, gli inglesi attaccarono la Cina». Era il 1839, la prima guerra dell’oppio e l’inizio di quello che i cinesi chiamano il loro «secolo di umiliazione» da parte dell’occidente, un’eredità che Xi si è impegnato a riscattare.