Secondo una tradizione dell’antico regno africano del Ruanda, chiunque fosse stato in grado di toccare il palo che reggeva l’ingresso della capanna del re, su regale concessione o anche solo con astuzia, aveva diritto al perdono incondizionato per qualsiasi colpa avesse commesso. Oggi una ricostruzione di quella capanna, fatta di paglia intrecciata e protetta dalle inyambo, vacche sacre dalle immense corna e dal latte pregiato, è conservata nella vecchia capitale di Nyanza, circa 90 chilometri a sud dall’attuale capitale ruandese, Kigali. La parola «perdono» è forse una chiave per cercare di capire oggi un Paese minuscolo, esteso poco più della Lombardia, al centro di un Continente sconfinato nella regione dei grandi laghi, a 75 miglia a sud dell’equatore. La società ruandese oggi è costruita sul perdono.
Nel 1994 il Paese fu dilaniato da un genocidio che colpì la minoranza etnica tutsi operato dall’etnia maggioritaria, gli hutu. Fu messo in atto un piano di sterminio covato per anni e che venne portato a termine, con una crudeltà inimmaginabile, da milizie paramilitari, ma anche da gente comune indottrinata all’odio. La comunità internazionale non seppe, o non volle, reagire. I massacri del ’94 durarono 100 interminabili giorni, causando circa 800mila morti e si conclusero con il collasso della società ruandese e la fine del gruppo di potere che aveva architettato le stragi. Gli oppositori di quel regime, capitanati dall’attuale presidente del Paese Paul Kagame, vinsero la guerra civile e si avviò una lenta e non facile ricostruzione dello Stato dalle fondamenta. Un passo importante è stato quello di cercare di perseguire i mandanti dei massacri, ma anche di perdonare tanti esecutori materiali degli eccidi che furono spinti a uccidere dalle minacce, dalla logica del branco e dall’idea di doversi difendere a tutti i costi da un fantomatico nemico che la propaganda martellante indicava come «gli scarafaggi».
Oggi il Ruanda è pacifico e straordinariamente sicuro per gli stranieri, anche se nel vicino Congo i conflitti non si sono mai placati e sono in parte ancora la conseguenza dei fatti del ’94. Il Paese si è sforzato di cancellare ogni divisione etnica, perseguendo una forte visione comune basata su un patriottismo unitario e senza odi settari. Ma forse il perdono è qualcosa che anche il visitatore europeo deve essere spinto a chiedere. Il Ruanda fu l’ultimo angolo d’Africa a resistere alle mire coloniali dell’era degli imperi. L’avventuriero senza scrupoli Henry Morton Stanley nel 1857 cercò di esplorarlo e venne respinto dalle frecce, ma un inviato del kaiser tedesco, il conte Von Götzen, riuscì anni dopo a essere accolto amichevolmente, gettando le basi di una relazione con la Germania che di fatto soggiogò quel piccolo regno rimasto per secoli sconosciuto al mondo. Ne seguì uno sfruttamento brutale del territorio. Gli europei saccheggiarono legname e risorse e importarono i propri conflitti. In Ruanda fu combattuta anche una triste replica della prima guerra mondiale. Belgi e tedeschi si confrontarono sulle rive dal lago Kivu. I belgi, che già controllavano il Congo, si appropriarono del Ruanda e applicando il vecchio sistema romano del «divide et impera»: resero istituzionale la divisione tra hutu e tutsi, generando odi etnici che nei decenni si sono acuiti, scatenando, dopo la fine del dominio coloniale, scontri periodici e rappresaglie culminate con l’apocalisse del 1994.
La visita in Ruanda per questo non può non iniziare che dal Memoriale del genocidio di Kigali. Nella lingua locale kinyarwanda la parola è «kwibuka» («ricordati»), lo slogan scelto per una serie di iniziative che scandiscono il trentennale dalle stragi. Va difesa la memoria di quello che è stato, ribadita l’intenzione di non ripetere il passato e di proteggere quello che si è riuscito a costruire in questi tre decenni, anche attraverso un perdono che sembrava impossibile. Il memoriale di Kigali non solo racconta in immagini la storia di quello che accadde, ma custodisce anche i resti di decine di miglia di persone. Il visitatore è portato a interrogarsi e a chiedersi perché la storia e l’uomo sembrino incapaci di liberarsi dall’odio e dall’orrore. Forse la soluzione sta proprio nella parola «perdono».
Ma pensare al Ruanda solo come luogo di sofferenza è un altro errore di cui rischiamo di doverci pentire. Alla fine della primavera si conclude la stagione delle piogge che lascia dietro di sé un paesaggio di un verde quasi incantato, il Paese è in gran parte collinare, i boschi si alternano a rigogliose coltivazioni di tè, patate, cassava, caffè, riso, grano, fiori, canna da zucchero. Circa il 70% della popolazione è impiegata nell’agricoltura che compone un terzo del prodotto interno lordo, garantendo anche un buon margine per le esportazioni. Il vivacissimo mercato popolare della capitale nel quartiere Kimironko è una splendida vetrina di questa ricchezza, frutto del generosissimo terreno vulcanico che garantisce più raccolti all’anno e la sussistenza anche dei villaggi più remoti.
Kigali però è una città che guarda alla modernità e che poco ha in comune con il minaccioso caos di altre capitali africane come Nairobi, Dakar o Lagos. Il centro direzionale della città dove sorgono l’aeroporto, un convention center, gli hotel internazionali e i palazzi istituzionali, farebbe invidia quanto a ordine, pulizia e fluidità del traffico a diverse grandi città europee. La capitale non ha subito il processo di alcune grandi città africane (e anche dell’Asia) che alcuni sociologi hanno definito «clochardizzazione di massa». Da quando è tornata la pace, non c’è stato quel movimento migratorio dalle campagne alle città che ha creato immense baraccopoli e intere fasce di popolazione che vivono in condizioni di grave emarginazione. Il Ruanda ha cercato risorse per sostenere lo sviluppo, raccogliendo tanti capitali dall’estero. Oggi il partner principale è la Cina che nel 2022 ha investito più di 180 milioni di dollari nel Paese e sta diventando non solo il maggior referente commerciale, ma anche il maggior contractor per le opere pubbliche. In cantiere ci sono grandi progetti come un aeroporto internazionale nel distretto di Bugesera a sud di Kigali, una nuova smart city, un parco tecnologico e un nuovo stadio all’interno della capitale e diversi progetti energetici per sfruttare i bacini idroelettrici e i depositi di gas del lago Kivu. Il Governo ha puntato però molto sul turismo, anche con una incisiva campagna promozionale internazionale con il motto «Visit Rwanda», potendo contare su un’altra ricchezza unica: i parchi nazionali. Nel 2023 un milione e 400mila turisti sono arrivati nel Paese, la speranza è di raggiungere i due milioni, un obiettivo quasi raggiunto prima della pandemia.
L’attrazione principale del paese è il Volcanoes National Park, uno dei pochi lasciti positivi del colonialismo, che fa parte del complesso dei Monti Virunga, un territorio unico nel pianeta dominato da cinque cime vulcaniche che è al confine tra Ruanda, Congo e Uganda. L’area è celebre soprattutto per essere l’unico habitat al mondo in cui vive il gorilla di montagna, il più grande primate del pianeta e uno dei nostri più vicini parenti nel regno animale. Secondo le più recenti stime ne sopravvivono in natura poco più di mille, un numero assai esiguo, ma per fortuna in costante crescita. Anche la loro esistenza fu minacciata dai fatti di trent’anni fa. Le pendici dei monti Virunga furono dapprima terreno di scontro della guerra civile tra esercito governativo ed esuli tutsi poi, nell’estate del 1994, divennero una delle vie di fuga di centinaia di migliaia di profughi hutu che scapparono verso il Congo e l’Uganda temendo una rappresaglia per quello che era accaduto. Le aree protette vennero devastate e il parco poté riaprire solo nel 1999. Entrare in contatto con i gorilla oggi è estremamente facile e per nulla rischioso (se si rispettano le regole che vengono ben illustrate dai guardia parco), ma è molto costoso, ci sono solo una decina di famiglie che sono abituate al contatto con i turisti e possono incontrare un massimo di dieci persone per giorno. Il permesso per poter avere questa esperienza costa 1500 dollari e nella stagione turistica la prenotazione con largo anticipo è necessaria. Ma il parco consente altre esperienze assai meno onerose e altrettanto uniche. Si possono intraprendere escursioni di varia difficoltà come quella, impegnativa, in cima al monte Bisoke o quella, semplicissima, per vedere da vicino un’altra specie di primati rarissima e unica di queste terre, la «golden monkey», l’innocuo e coloratissimo cercopiteco dorato ghiotto di bambù. È davvero turismo sostenibile. L’afflusso di visitatori che di solito fanno base a Musanze, la città ai piedi dei monti, consente non solo che l’accoglienza diventi assai più redditizia di ogni forma di bracconaggio, ma incentiva programmi di conservazione e sostiene i progetti di espansione del parco.
Il secondo parco nazionale più visitato è quello a est, l’Akagera National Park ai confini con la Tanzania che promette un più tradizionale safari africano. Qui si possono vedere i cosiddetti «big five» cioè i cinque grandi animali della savana: leone, leopardo, rinoceronte, elefante e bufalo. Ma se con i gorilla e i primati del Volcanoes National Park il contatto è diretto, qui, inevitabilmente, l’incontro avviene attraverso il finestrino di un fuoristrada. Alla fine in Ruanda l’avventura è più nelle emozioni che negli imprevisti. Le dimensioni ridotte del Paese e una rete di strade non estesissima, ma ben asfaltata, permettono di viaggiare in sicurezza e in tempi sempre ragionevoli. La disciplina degli automobilisti è invidiabile e i limiti di velocità sono rispettati e fatti rispettare. Gli hotel sono numerosi e confortevoli anche per chi ha un budget ridotto. La cucina forse richiede un po’ di adattamento, come i tempi d’attesa nei ristoranti che difficilmente scendono sotto l’ora. L’anno prossimo il Paese ospiterà il Campionato Mondiale di ciclismo su strada, che per la prima volta verrà svolto in terra africana. Un ulteriore segno di apertura e di volontà di stare sotto i riflettori del mondo. Le testate giornalistiche ruandesi ogni giorno comunicano progressi che suscitano una certa invidia: successi in campo sanitario, ambientale ed economico. Non è in realtà oro tutto quello che luccica. Le relazioni politiche con i confinanti Congo e del Burundi rimangono problematiche, il Governo ruandese è accusato da più parti di aver zittito ogni opposizione, di armare le milizie che combattono a est del confine e di sottrarre le ricchezze minerarie congolesi. La classe media cresce, ma milioni di persone hanno solo lo stretto necessario per vivere. Ma la speranza è che una popolazione giovane, cresciuta con la consapevolezza dell’importanza della memoria e della necessità del perdono, possa riscrivere, con le proprie regole e una volta e per sempre, la storia di questo angolo d’Africa.