Se la guerra comincia a stancare

by Claudia

Un confronto fra gli obiettivi russi e quelli ucraini; il ruolo degli Stati Uniti e della Cina per arrivare a una tregua

Un fantasma si aggira tra gli europalazzi di Bruxelles. Il fantasma di Viktor Orbán. Il primo ministro e padre padrone della Repubblica di Ungheria ha sfidato il protocollo e le buone maniere comunitarie intestandosi, da presidente di turno dell’Unione Europea, una missione vertiginosa per tentare di aprire un dialogo tra i contendenti nella guerra d’Ucraina. Orbán ha prima visitato semiclandestinamente Zelensky a Kiev, poi Putin al Cremlino, di lì dirigendo verso Pechino per incontrare Xi Jinping e chiudere il cerchio a Washington (Biden) e soprattutto a Mar-a-Lago (Trump) per riportare all’alleato americano il senso della sua esplorazione. Orbán è abbastanza intelligente per capire che non spetta a lui negoziare la pace tra Russia e Ucraina. E sa anche che la trattativa non è per domani. Ciò premesso ha rivolto ai duellanti – Zelensky e Putin – una domanda cardine. Potete immaginare un cessate-il-fuoco a tempo limitato, per esempio due o quattro settimane, durante il quale avviare un negoziato di pace? La risposta di entrambi è stata più o meno negativa.

Zelensky e Putin litigano su tutto ma concordano su un punto che esclude l’ipotesi Orbán: non si fidano affatto l’uno dell’altro. Sia il leader ucraino che quello russo hanno detto che sarebbero volentieri disponibili a cessare il fuoco, salvo che sono certi che l’avversario ne approfitterebbe per ricompattare le fila e passare all’attacco. Risposta abbastanza scontata ma che non è parsa a Orbán come un no definitivo. La missione del leader ungherese segnala comunque che da entrambe le parti si comincia ad agognare la sospensione del conflitto. Non una vera e propria pace, ma una tregua solida e di lungo periodo a condizioni tutte da determinare. Zelensky si trova in una condizione estremamente critica: serie e continue perdite al fronte; esodo di popolazione verso Paesi vicini e lontani; malessere interno, per ora tenuto sotto controllo, ma che segnala come la sua leadership non sia più indiscussa. Mandato ormai scaduto, giustificato però con la legge marziale che impedisce di tenere regolari elezioni in un Paese parzialmente occupato. Soprattutto, Zelensky ha fissato i termini della vittoria secondo parametri ormai irrealistici. Il recupero totale dei territori persi nella guerra è evidente utopia.

Quanto a Putin, la dinamica bellica volge chiaramente in suo favore. Allo stesso tempo rischia di attrarre i russi troppo in profondità nel territorio ucraino, verso aree che forse potrebbe conquistare ma difficilmente tenere. Il paradosso dello scontro è che tecnicamente gli attuali confini di fatto tra Russia e Ucraina sono difendibili per entrambi. Le province prese, anche solo in parte, dalle truppe del Cremlino sono abitate quasi totalmente da russi o russofoni. La popolazione di ceppo ucraino e di vocazione antirussa se n’è andata da tempo. Di conseguenza anche i territori di fatto sotto il controllo di Kiev sono molto più omogenei di quanto non fossero prima del 24 febbraio. Salvo la perdita continua di popolazione che non vuole andare al fronte e spesso lascia l’Ucraina. Ma la posta in gioco non è strettamente territoriale. Non per gli ucraini, meno ancora per i russi. Gli ucraini sanno che prima o poi dovranno rinunciare a un pezzo notevole del territorio che pertiene loro in base al diritto internazionale. Il vero obiettivo è l’ingresso nel sistema euroatlantico. Ciò che potrà avvenire forse in futuro a partire da quell’80 per cento di Repubblica Ucraina che dovrebbe restare sotto Kiev una volta sancita la pace (tregua).

Quanto a Putin, per lui la collocazione geopolitica dell’Ucraina è l’obiettivo strategico dell’invasione. Prima del 24 febbraio il Cremlino vedeva la penetrazione atlantica nell’Ucraina come sempre più pervasiva e minacciosa e la considerava pericolo esistenziale. Putin ha già fatto capire di poter rinunciare a parte dei territori già annessi, peraltro non tutti controllati. In cambio però vuole la neutralizzazione dell’Ucraina. In una forma o in un’altra Kiev deve restare al di fuori dello spazio atlantico, mentre non ci sono più obiezioni alla sua adesione all’Unione europea (anche perché così i costi della ricostruzione sarebbero largamente pagati dai Ventisette). Su queste basi potrà trovarsi un compromesso? Molto dipenderà da Trump o chi per lui andrà alla Casa Bianca (leggi articoli alle pagine 23 e 25). Un ruolo importante però lo sta già giocando la Cina. La novità strategica di lungo periodo è infatti la penetrazione di Pechino nello spazio europeo, di cui le recenti esercitazioni militari in Bielorussia, in prossimità di Polonia e Ucraina, sono sintomo fino a ieri impensabile. Prima del 24 febbraio sapevamo che gli equilibri europei di sicurezza dipendevano essenzialmente da russi e americani. D’ora in poi nell’equazione dovremo integrare anche la Cina e forse altri Paesi asiatici.

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