Trump e la guerra in Ucraina

by Claudia

USA-2, cosa succederebbe se a novembre venisse rieletto The Donald

«Se Donald Trump ha un piano di pace lo riveli ora, se dobbiamo perdere il nostro Stato, ci serve saperlo adesso»: l’esortazione di Volodymyr Zelensky al candidato repubblicano alla Casa Bianca, in una intervista di inizio luglio, ha ricordato che il 5 novembre 2024 è una scadenza cruciale, non soltanto per gli Stati Uniti, e a Kiev come a Mosca non nascondono di aspettare l’election day con notevole ansia. La vittoria di Trump sarebbe un terremoto di portata globale, e la sua promessa di «far finire in 24 ore la guerra» della Russia contro l’Ucraina preoccupa Kiev quanto i suoi alleati europei. E forse preoccupa perfino Vladimir Putin che qualche mese fa aveva confessato a sorpresa di preferire che alla Casa Bianca restasse il «più prevedibile» Joe Biden. A giudicare dal suo mandato precedente, Donald Trump non è un politico che nutre grandi simpatie per l’Ucraina, mentre ha mostrato spesso apprezzamento per Putin. Il candidato repubblicano non riesce a perdonare a Zelensky l’Ukraine-gate, la telefonata che gli aveva fatto nel 2019 con la richiesta di incriminare per corruzione Hunter Biden, minacciando altrimenti di togliere gli aiuti militari a Kiev. Zelensky si era rifiutato e il ricatto, rivelato dai media, è costato al presidente repubblicano il tentativo di impeachment. Trump ha ripetuto spesso e volentieri il pregiudizio sull’Ucraina come «Paese corrotto», funzionale alla sua battaglia contro la leadership democratica: un’indagine su presunte tangenti contro il figlio di Biden che lavorava a Kiev era perfetta per la sua immagine di uomo che sfida il «deep State» di Washington. È stata la fazione dei trumpiani al Congresso a bloccare per mesi, all’inizio del 2024, l’invio di nuove armi alla resistenza ucraina, e il suo candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance, ha mostrato esplicite simpatie filorusse e una altrettanto manifesta ostilità verso gli aiuti a Zelensky.

Premesse che fanno temere, o sperare, in base allo schieramento, e diversi esperti internazionali hanno visto nel tentativo di Putin di una nuova offensiva in Ucraina il desiderio di conquistare più territori prima dell’arrivo di Trump. È altrettanto probabile che tutta una serie di mosse strategiche degli alleati occidentali – dalla serie di accordi bilaterali sull’assistenza militare stretti dai vari Paesi con Kiev, all’impegno di aiuto agli ucraini in ambito Nato – sia stato funzionale a minimizzare i rischi di un eventuale ritorno del repubblicano alla guida degli Usa. Mosse che sono probabilmente servite a rassicurare ucraini, ma anche molte capitali dell’Europa dell’est, e dopo il vertice dell’Alleanza atlantica a Washington Zelensky ha dichiarato di non temere un cambio di rotta degli Usa. Del resto, con l’avvicinarsi delle elezioni e la risalita di Trump nei sondaggi, si passa dalle clamorose dichiarazioni elettorali alla politica. Mentre Viktor Orban ha intrapreso un tour diplomatico che l’ha portato da Kiev a Mosca e Pechino, per poi volare a Mar-a-Lago, in quello che molti esponenti dell’Unione europea hanno criticato come un esplicito tentativo di negoziare per conto di Trump, emissari repubblicani – secondo le indiscrezioni dei media americani – avrebbero già cominciato un dialogo con la Nato e i vari Governi occidentali. Il «piano di pace in 24 ore» di Trump rimane un segreto, anche se varie fughe di notizie lo riassumono come una doppia minaccia: a Putin di incrementare gli aiuti a Kiev se non si ferma, e a Zelensky di togliere gli aiuti se non accetta di piegarsi al dittatore russo. Il progetto di negoziato pubblicato da due esperti militari vicini a Trump, il generale Keith Kellogg e Fred Fleitz, rivela qualcosa di più: l’idea sarebbe «congelare» il conflitto lungo la linea del fronte esistente, e di cancellare la promessa di un ingresso dell’Ucraina nella Nato, garantendo invece la sua sicurezza da una nuova invasione russa con una serie di accordi, e con nuovi massicci aiuti militari. Non è chiaro se il piano prevedrebbe anche la concessione di territori ucraini occupati, anche se fonti vicine a Trump sostengono che vorrebbe consegnare a Putin la Crimea e le regioni di Donetsk e Luhansk.

Piano che però, come avverte lo stesso Fleitz, è tutt’altro che definitivo: «Trump ha reagito positivamente al progetto, ma non arriverei a dire che l’ha approvato», ha detto a Reuters. Difficile immaginare un’America che accetterebbe il precedente di un cambiamento dei confini di uno Stato con la forza militare, aprendo la strada a un effetto domino globale. Come la presidenza precedente del candidato repubblicano ha già dimostrato, i proclami elettorali sono molto lontani dalla politica reale: anche nel 2016 The Donald prometteva di risolvere tutti i problemi con Putin in un incontro, finendo per diventare il presidente americano che ha imposto più sanzioni alla Russia, arrivando anche a un filo dallo scontro con i militari russi in Siria. Il motivo è molto semplice: per quanto isolazionista e simpatizzante dei «valori tradizionali», il gruppo dirigente trumpiano è consapevole che Putin ha fatto dell’antiamericanismo il perno della sua ideologia, e che cedere a lui pezzi di Ucraina significherebbe, per dirla con Zelensky, «diventare un presidente perdente». Anche le eventuali pressioni degli alleati europei di Trump non significano necessariamente un’alleanza a favore della Russia e contro l’Ucraina: gli Usa non hanno a Mosca interessi economici cospicui né dipendono dal suo gas, e ovviamente non condividono la retorica antiamericana che ispira le critiche agli aiuti per Kiev di molte destre (e sinistre) europee. Infine un rafforzamento di Putin significherebbe anche un rafforzamento dello schieramento del «Sud globale» a guida cinese: e se il primo, visto da Washington, potrebbe essere una sconfitta tattica, la seconda sarebbe strategica.

Il vero rischio di una presidenza Trump non è dunque tanto quello di «giocare con la vita del popolo ucraino» negandogli gli aiuti, come teme Zelensky, quanto l’ingresso, da gennaio 2025, in una fase di turbolenza diplomatica. Il tratto e il metodo di Trump, come nota perfino Putin, è l’imprevedibilità, e la sua agenda è guidata da aspirazioni e risentimenti soprattutto interni all’America. Più che sacrificare l’Ucraina, e con essa la sicurezza europea, la Casa Bianca repubblicana potrebbe relegarla in fondo alla lista delle sue priorità. È quasi certo che non riuscirebbe a farlo per molto tempo, ma anche pochi mesi basterebbero per produrre effetti pesantissimi, non solo per gli ucraini.

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