Si sostiene spesso che il fascino dello sport si concentri soprattutto nella sua capacità di generare belle emozioni. Vero. Non ho dubbi. Non nego però che esistano anche aspetti negativi e deleteri, i quali possono sfociare, ad esempio, nella violenza. Tuttavia, sia pure nella consapevolezza delle derive perniciose che questo fenomeno planetario ci mostra, sono convinto che la forza vitale dello sport, vissuto di sponda quotidianamente nelle nostre case, sia una sorta di farmaco per chi, magari, fatica a trovare serenità nella propria vita relazionale e professionale.
Giorni fa, ho incontrato un uomo tetraplegico con gravi difficoltà nell’articolazione della parola. Mi ha confessato che il poter seguire in tv, o allo stadio, le vicende della sua squadra del cuore, gli regala l’energia che lo aiuta a guardare avanti, a trovare una ragione. Uno degli aspetti che mi affascinano del pianeta sport è che molti atleti sono consapevoli di questa loro facoltà, direi quasi di questa loro responsabilità.
Ciononostante, restano spesso talmente ingabbiati in questioni tattiche, strategiche, scientifiche, da rischiare di essere trasformati in una sorta di macchina quasi infallibile, e così facendo di erigere un muro tra loro e chi li osanna. Basta però un piccolo graffio in superficie, una domanda fuori dal comune da parte di un giornalista, per liberarli dalla loro prigione e fare affiorare l’essere umano che è in loro. Capita soprattutto nei momenti di difficoltà. Dopo un primo comprensibile trincerarsi dietro un protettivo silenzio, gli atleti costretti al palo sono più disposti ad aprirsi. Anche loro hanno bisogno di nuova linfa vitale.
Tre anni fa, ai Giochi Olimpici di Tokyo, lo sport ticinese visse momenti di straordinaria intensità: il ritorno di una medaglia «estiva», con Noè Ponti, 21 anni dopo quella conquistata nel 2000 a Sydney dal tiratore Marcel Ansermet; il 5° posto di Ajla Del Ponte nella finale dei cento metri, prima europea, migliore sprinter non afroamericana; la corsa da protagonista del biker Filippo Colombo, capace di duellare con l’élite mondiale; infine la semifinale di Ricky Petrucciani sui 400 piani, dopo l’argento agli Europei. Di lui si disse: «È nata una stella!».
Ebbene, solo Noè Ponti potrà ripetersi nell’edizione iniziata tre giorni fa a Parigi. Anzi, il nuotatore losonese potrebbe persino migliorarsi. Luce rossa per gli altri, vuoi per una serie infinita di infortuni (Ajla), vuoi per scelte tecniche discutibili dei selezionatori (Filippo). Dal canto suo Ricky, che potrebbe essere recuperato per la staffetta mista, ha subìto un’insospettabile involuzione.
Da potenziali protagonisti a spettatori. Dal palcoscenico al divano. Può essere stimolante, per rialzarsi, ripartire e cercare il riscatto. Ma può essere anche molto doloroso.
L’aspetto che invece può far sorridere noi spettatori è il fatto che, nonostante queste defezioni eccellenti, il Ticino sarà rappresentato da cinque atleti. Oltre a Noè Ponti, vedremo all’opera la ginnasta Lena Bickel; la portacolori della Società federale di ginnastica di Morbio Inferiore, stretta nella morsa di orientali e americane, punta a un posto nella finale a 24. Il bleniese Jason Solari, porta a Parigi ambizioni importanti nella gara di tiro con la pistola ad aria compressa. Per lui e per il suo coach storico Mauro Biasca, la parola «podio» non è tabù. Linda Zanetti, anche se quest’anno sta pedalando un po’ meno forte rispetto alla passata stagione, potrebbe approfittare della meritatissima selezione per fare un ulteriore salto di qualità, soprattutto in termini di consapevolezza dei propri mezzi. Infine, in virtù della sorprendente e a volte ruvida legge delle alterne vicende umane, la famiglia Colombo sarà rappresentata dal fratello maggiore di Filippo. Elia non pedala. Veleggia sulla sua tavola da Windsurf Foil che potrebbe tanto confinarlo nelle retrovie, quanto sospingerlo sul podio. Che il buon vento ci metta il suo zampino.
Cinque atleti, sei se ci sarà anche Petrucciani, per un Cantone di circa 350mila abitanti: 1 su 58mila. Su scala nazionale ne avremo 1 su 75mila. Ogni tanto emerge una graduatoria che ci premia come cantone virtuoso. Sarà magari casuale, tuttavia sono convinto che dietro ai fenomeni di élite ci sia l’oscuro, capillare, paziente, appassionato lavoro di una base che, giorno dopo giorno, prepara le fondamenta sulle quali erigere meravigliosi edifici che ci lasciano a bocca aperta.