Tra il 1997 e il 2014 Mosca partecipava al forum denominato G7, in quegli anni ribattezzato G8, ma la musica è cambiata
Sembra incredibile nei tempi che corrono, contrassegnati dalla guerra che in Ucraina contrappone Russia e Occidente e dalle reciproche minacce di escalation che arrivano a prospettare l’ipotesi dell’annientamento nucleare. Ma fra il 1997 e il 2014 Mosca partecipava a pieno titolo al forum denominato G7, in quegli anni ribattezzato G8. Era il tempo in cui la Russia, emersa dal rovinoso crollo dell’Unione Sovietica, considerava i termini di un’eventuale adesione alla Nato. Proprio la Nato, quella stessa Alleanza atlantica che oggi è percepita a Oriente come l’intima essenza di un Occidente ostile che arma i nemici di Mosca. In quel 1997 che vide l’adesione formale della Russia eravamo di fronte a elementi geopolitici nuovi, che sembravano avvalorare la tesi che uno studioso americano, Francis Fukuyama, riassunse nel titolo di un celebre saggio, La fine della storia. Era davvero finita la storia con il collasso del sistema sovietico, all’insegna del globalismo e del liberismo occidentale? Niente affatto: quel drammatico susseguirsi di luci e ombre che chiamiamo storia avrebbe presto reclamato il suo diritto di condizionare il nostro destino. Si sarebbe riproposto con nuove sfide, nuove rivalità, nuovi conflitti, nuove pesanti ipoteche sul futuro del mondo.
Proprio nei primi anni della parentesi G8 le riunioni del gruppo dovettero fare i conti con accese contestazioni che spesso sfociarono nella guerriglia urbana. Forze anti-sistema, dai gruppi no-global della sinistra alternativa fino ai devastanti black bloc, stringevano d’assedio le sedi degli incontri annuali, repressi da reparti di polizia sempre meno propensi a distinguere la legittima protesta dalla sua degenerazione vandalica. Il culmine di questa turbolenta stagione si ebbe con il G8 di Genova nel 2001, che mentre gli otto capi di Stato e di Governo, fra i quali George Bush e Vladimir Putin, discutevano nei saloni del Palazzo Ducale, vide le forze dell’ordine all’assalto di una massa multinazionale di contestatori che comprendeva anche pacifiche organizzazioni studentesche. La polizia aveva istruzioni severissime, uno dei manifestanti fu ucciso, molti i feriti. Le immagini dei ragazzi grondanti di sangue che uscivano da una scuola del centro di Genova fecero il giro del mondo.
Era il luglio dell’anno che inaugurava il nuovo secolo e il nuovo millennio: meno di due mesi più tardi la strage delle torri gemelle a New York avrebbe aperto una delle stagioni più cruente della storia. Di fronte alla sfida contestatrice il G8 prese le sue misure, riunendosi negli anni successivi ai fatti di Genova in località difficilmente raggiungibili e facilmente difendibili: nel 2002 la presidenza canadese scelse Kananaskis, una sperduta località montana dell’Alberta. Nel 2024 la presidenza è di nuovo toccata all’Italia, che ha organizzato i lavori a Borgo Egnazia, un posto altrettanto sperduto nel Salento pugliese. Nel frattempo l’aggravarsi delle tensioni e delle rivalità internazionali aveva ridimensionato il G8 privandolo della presenza russa e trasformandolo di nuovo in G7. La partecipazione di Mosca fu sospesa nel 2014, quando il vertice del gruppo doveva tenersi proprio in Russia, a Sochi, ma l’annessione della Crimea, primo episodio della crisi che sarebbe culminata nella guerra ucraina, aveva provocato la reazione dei Sette. Nel 2017 la Russia, ormai ai ferri corti con l’Occidente, uscì formalmente dal gruppo.
Con la nascita e l’affermarsi dei BRICS una nuova architettura delle relazioni internazionali si propose di mandare in archivio la tradizionale tripartizione fra Occidente, blocco sovietico e terzo mondo. Erede principale dell’Unione Sovietica, la Russia propose la formula del multilateralismo, in pratica coinvolgendo la potenza sempre più ingombrante della Cina e assieme alla Cina ponendosi a capo di quello che era stato il Terzo mondo. Economie emergenti: alta densità demografica, alti tassi di crescita, superamento di vecchie sudditanze e secolari problemi sociali. Di fronte a un Occidente ancorato a strutture come il G7 o il FMI ecco dunque la sfida delle nuove potenze, che fanno valere l’enorme massa critica offerta dalla demografia (India e Cina ospitano da sole un terzo della popolazione mondiale) e gli impetuosi tassi di aumento del Prodotto interno lordo. I Paesi BRICS sono uniti dalla comune necessità di lasciarsi alle spalle ciò che resta del sottosviluppo. Uniti anche da un sogno, quello di rivoluzionare il sistema internazionale dei pagamenti facendo scendere il dollaro americano dal suo piedistallo e sostituendolo con una valuta comune.
I due blocchi, a ben vedere, sono tutt’altro che compatti. Le due potenze maggiori dei BRICS, Russia e Cina, non hanno certo la stessa visione: la prima considera il gruppo per la sua valenza ideologica e politica, la seconda guarda piuttosto all’occasione per fare buoni affari e riprendere la crescita tumultuosa degli anni scorsi. Alcuni fra i BRICS sono divisi da storici contenziosi, si pensi all’antica ruggine fra Cina e India e alle loro irrisolte questioni di confine, o al problematico rapporto fra Iran e Arabia Saudita. Inoltre molti fra gli appartenenti al gruppo si concedono disinvolti giri di valzer nel campo avverso: come il Brasile che sceglie il Giappone per organizzare il salvataggio ecologico dell’Amazzonia. O i numerosi BRICS che accettarono l’invito al G8 italiano che aveva in agenda anche i temi dell’Africa e dell’Indo-Pacifico. Del resto anche il campo occidentale si concede qualche distrazione, basti pensare al caso turco, che chiama in causa la massima potenza convenzionale della Nato. Paese bicontinentale, a lungo sulla soglia dell’Unione europea, la Turchia guarda ai BRICS con attenzione e simpatia, senza escludere una possibile adesione.