Brucia il mondo mentre gli Stati Uniti latitano

La nuova escalation della tensione in Medio Oriente avviene sullo sfondo di una sorta di «vacanza» della politica estera americana. Una logica implacabile sembra spingere verso una generalizzazione del conflitto in Libano e Iran (dove settimana scorsa è stato ucciso il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh). La capacità degli Stati Uniti di imporre moderazione si è ridotta. Joe Biden è un presidente depotenziato in tutti i sensi. L’azione degli Stati Uniti è ancora meno incisiva del solito, perché tutti gli attori mondiali già pensano al «dopo», s’interrogano su quale sarà la strategia internazionale di una presidenza Harris o Trump. Molto dipende dai calcoli iraniani sui rapporti di forze nella regione. Nonché dal livello di incoraggiamento che il regime degli ayatollah sciiti riceve dai suoi protettori nell’Asse della resistenza, Russia e Cina.

Questo vale più in generale, ben oltre il teatro pur drammatico del Medio Oriente. Il resto del mondo si prepara in vista del 5 novembre, un’elezione americana gravida di incognite anche per le sue ripercussioni sul ruolo globale degli Stati Uniti. Perfino ciò che è accaduto in Venezuela si può leggere in questo quadro. Maduro rivendica una vittoria poco verosimile, l’opposizione denuncia brogli: lo scenario purtroppo non è nuovo. Ma la feroce violenza con cui il dittatore di Caracas infierisce contro i manifestanti, in un bagno di sangue, può anche essere favorita da un senso di latitanza degli Stati Uniti. C’è troppa carne al fuoco per l’Amministrazione Biden, occuparsi anche della nuova crisi in Sudamerica forse supera le risorse di attenzione geopolitica di una squadra vicina al capolinea. Eppure il Venezuela è un bubbone che ha ripercussioni concrete perfino sulla campagna elettorale: il disastro economico di quel Paese continua a spingere orde di profughi che tentano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti. Miseria e caos in Venezuela contribuiscono alla crisi dei migranti, tema forte per la propaganda di Trump e punto debole per Kamala Harris.

Tornando all’altro incendio in corso, quello mediorientale, l’Asse della resistenza nella sua accezione originaria unisce le varie milizie jihadiste (Hamas, Hezbollah, Houthi) sotto la regia della teocrazia islamica di Teheran. Ma c’è un Asse ancora più importante, allargato a Russia e Cina, Corea del Nord e Venezuela: tutti i regimi autoritari impegnati a vario titolo a indebolire l’Occidente. A cerchi concentrici, quel raggruppamento si può ridefinire Asse dell’evasione, includendovi pure molti altri Paesi del Grande sud globale che hanno deciso di non aderire alle sanzioni contro la Russia. Non tutti sono anti-occidentali, né tutti sono dittature. Però hanno in comune l’avversione all’ordine internazionale antico, che identificano con un’egemonia americana. Tutti si esercitano a prevedere che tipo di influenza l’America vorrà e potrà esercitare dopo il 5 novembre, quando in ogni caso gli elettori avranno scelto un leader diverso da quello attuale. Sia che ci sia un Trump II sia che vinca Harris, entreremo in qualche modo nel dopo-Biden.

Un’Amministrazione Harris avrebbe elementi di continuità, appartenendo allo stesso partito, però non per questo la sua politica estera sarebbe identica. Per esempio abbiamo già visto Harris differenziarsi per una posizione più filo-palestinese e un tono più critico contro Benjamin Netanyahu. Trump è sempre un mezzo mistero, perché l’imprevedibilità fa parte della sua natura. Non a caso ha dovuto dimettersi dalla Heritage Foundation il responsabile del Project 2025, un insieme di riforme che era stato identificato come il programma di Governo di una nuova Amministrazione Trump. La Heritage Foundation è un think tank di destra in cui lavorano molti esperti trumpiani, alcuni dei quali hanno avuto ruoli pubblici durante la prima presidenza Trump dal 2017 al 2020. Ma Trump era infastidito dal fatto che i democratici stessero già attaccando il Project 2025, anche perché lui non vuole farsi legare le mani da una piattaforma elettorale troppo precisa. Varrà in politica estera dove lui applicherebbe la sua indole «transactional», cioè il suo approccio da businessman pronto a mettere qualsiasi cosa sul tavolo negoziale. L’Economist Intelligence Unit ha stilato un Indice del Rischio Trump, una classifica dei Paesi che più hanno da perdere o da guadagnare nel caso di una sua rielezione. Tra i beneficiari c’è in testa la Russia di Putin; tra le vittime destinate a subire danni peggiori ci sono i vicini del sud, dal Messico al Centroamerica al Venezuela.

Sulle mosse che tutti gli altri stanno facendo, è utile ricordare che luglio scorso – prima ancora di essere segnato dall’attentato a Trump, dal ritiro di Biden, dalla candidatura di Harris – si era aperto con un vertice ad Astana. Nella capitale del Kazakistan – una ex Repubblica sovietica – Xi Jinping e Putin avevano partecipato a un summit dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai: una delle tante sigle partorite dalla diplomazia cinese, per organizzare attorno a Pechino delle geometrie variabili di alleanze tra Paesi emergenti. Un altro di questi club sono i Brics. L’idea è di rendere sempre meno decisivo il «nostro» G7. Poco dopo c’era stata la visita del premier ungherese Viktor Orban a Mosca, da Putin, gesto inaugurale della sua presidenza di turno dell’Unione europea, subito sconfessato da quasi tutti gli altri Stati membri. Dietro Orban si profilava l’ombra lunga del suo amico americano: Trump.

Al Cremlino è possibile che Orban sia stato il latore di un «messaggio americano», o quantomeno di confidenze sulle intenzioni di Trump? Il premier ungherese ha definito questa visita a Mosca «una missione di pace». Il segretario uscente della Nato, Jens Stoltenberg, ha replicato: «Non c’è nessun segno che Putin voglia la pace». Di sicuro, non ora. Gli conviene aspettare le elezioni americane del 5 novembre. Trump ha promesso, se vince, «la pace in 24 ore». Le condizioni si possono immaginare: cessate-il-fuoco immediato, ciascuno resta sulle sue posizioni territoriali, quindi Putin si tiene aree conquistate con un’aggressione criminale. Poi la cessazione degli aiuti americani a Kiev. Una pace così sarebbe crudele per il popolo ucraino e pericolosa per la futura sicurezza dell’Europa intera. Senza garanzie di difesa – come un «ponte» verso l’ingresso nella Nato, più patti militari bilaterali – l’Ucraina sarebbe alla mercé della prossima aggressione russa. Trump ha anche ricevuto la visita di Benjamin Netanyahu, che lo ha omaggiato in occasione del suo viaggio a Washington per parlare al Congresso. Tutti si posizionano a seconda delle previsioni sul 5 novembre.

La discesa in campo di Harris ha reso meno sicure le scommesse. Da quando c’è lei come candidata, i sondaggi si sono bilanciati e le previsioni sono meno nette. Non si respira più quell’atmosfera di «inevitabilità» di un ritorno di Trump alla Casa Bianca. Però Harris non sarebbe come un Biden bis. Alcuni elementi di continuità verrebbero garantiti dall’establishment globalista che si riconosce nel partito democratico. La Nato sarebbe salva… Almeno in apparenza la fedeltà dell’America ai suoi alleati verrebbe rinnovata e confermata. Tuttavia Harris, rispetto a Biden, è più vicina a certe correnti della sinistra radicale che praticano una sorta di «estremismo umanitario»: si ricorda ad esempio che da vicepresidente lei fece una tournée africana dominata dai temi Lgbtq+. Nella sinistra radicale c’è una cultura isolazionista non meno forte che a destra, perché basata sulla convinzione che l’America nella sua politica estera abbia commesso soprattutto crimini e abusi.

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