Simbolo di libertà: da icona della ribellione a status symbol, il marchio tra i più famosi e longevi della storia motociclistica ha incarnato per anni il sogno americano
Un mito, una leggenda, un’icona, un simbolo di libertà e, diciamolo pure, un pezzetto di storia da cavalcare. Per qualcuno uno status symbol da esibire quando si va a prendere il caffè in piazza, possibilmente a scappamento aperto. Parliamo della Harley-Davidson, uno dei marchi più famosi e longevi nella storia motociclistica. Siamo negli anni ruggenti a cavallo dei secoli XIX e XX, nei quali nascono le grandi case automobilistiche e, per le due ruote, nomi come Indian negli Usa, Norton e Triumph in Inghilterra. Nel 1910 le motociclette immatricolate negli Stati Uniti erano già quasi 90mila!
Harley-Davidson vede la luce nel 1903 grazie ai fratelli William, Arthur e Walter Davidson e a William Harley in un semplice capannone di legno di quindici metri quadrati a Milwaukee nel Wisconsin, dove fu assemblato artigianalmente il primo esemplare. In pochi anni la piccola impresa familiare comincia a produrne qualche altro; prima quattro poi otto e, infine, alcune decine, tra i quali una moto battezzata «Silent Grey Fellow», la silenziosa compagna grigia.
Il colore originale del primo modello era stato il nero con filetti dorati e un logo rosso e oro inventato dalla zia dei fratelli Davidson; al nero si aggiungerà ben presto il grigio, per l’appunto, mentre per le macchine che correvano nel campionato americano furono scelti il nero e l’arancione; tutti colori ancora presenti sulla tavolozza del marchio americano, arrivato fino ai nostri giorni tra alti e bassi (le due guerre, la grande depressione, la concorrenza delle case inglesi e soprattutto di quelle giapponesi a partire dagli anni Settanta-Ottanta).
L’harleysta, questo sconosciuto
Chi acquista una H-D può iscriversi di anno in anno, o «una tantum» per la vita, allo HOG (Harley Owners Group) che rappresenta il primo livello di appartenenza a un gruppo speciale che dovrebbe garantire una sorta di originalità distinguendolo da altri appassionati delle due ruote; l’HOG ha una sua rivista e un sistema di comunicazione e scambio tra soci. Sotto il suo cappello ogni Paese e ogni regione hanno organizzazioni che propongono attività varie e uscite di gruppo, con lo scopo di fidelizzare i membri alla marca. I sociologi lo chiamano: creare un «effetto banda».
Quando percorrete una strada, ad esempio sui passi alpini, noterete come quasi sempre i motociclisti in generale, e gli Harleysti in particolare si salutano con la mano quando si incrociano, alzando il piede destro quando si sorpassano. Anche a chi scrive, individuo fondamentalmente solitario, è capitato di attaccar bottone con gente sconosciuta, incontrata per caso in un posteggio, casco in mano, e chiacchierare un momento dell’itinerario, della bellezza del paesaggio, del traffico e del tempo oppure delle rispettive moto, dandosi subito del tu, indipendentemente dall’età, dalla provenienza e dalla rispettiva visione del mondo. Ci si lascia poi amichevolmente con una stretta e un movimento diversi dal solito stringimano tra comuni mortali. Difficile immaginare di fare lo stesso con un automobilista che guidi la stessa marca d’auto…
La banda
Per i fan vengono organizzati raduni come quello mitico di Lugano del 2010 che attirò sul lungolago tremila moto provenienti da tutta l’Europa per una parata indimenticabile per i motards, i commercianti della regione e le migliaia di curiosi che si sono lustrati la vista con le cromature e ripulite le orecchie con l’inconfondibile sound del motore bicilindrico V-Twin; un po’ meno piacevole per coloro cui non importava niente, più preoccupati per ambiente e tranquillità (gli Swiss Harley Days® si vi si sono svolti dal 5 al 7 luglio). E al Faakersee, in Austria, ogni settembre accorrono decine di migliaia di persone sull’arco di più giorni per dare vita al più gigantesco raduno europeo! In queste occasioni si vedono moto di tutti i tipi: vecchie signore della strada e ultimi modelli tecnologici, con mille colori e «customizzazioni» talvolta sorprendenti quando non folli; diverse l’una dall’altra, ma per certi versi tutte un po’ simili, condividendo il Dna che le caratterizza e le rende inconfondibili malgrado le imitazioni della concorrenza. Forse come lo sono anche i biker che le cavalcano?
Qui la faccenda diviene complessa poiché si apre un ventaglio di personaggi e di situazioni e non si può fare un discorso monocorde. In altre parole: chi è il vero harleysta? È come chiedere: come sono gli svizzeri o gli italiani? Pregiudizi, luoghi comuni, fake news, piccole grandi verità frutto spesso di un’esperienza personale più o meno credibile, tutto serve a creare un’immagine diversificata.
C’è il motociclista che sposa la filosofia americana della libertà, grandi strade sotto il sole, capelli al vento (non sempre il casco era obbligatorio), posizione in sella rilassata e via, con un borsone legato al sellino posteriore, verso l’infinito. Uno slogan pubblicitario della marca ricordava come la sola cosa brutta di un viaggio in Harley è che poi finisce. Ma qui da noi si devono fare i conti con strade strette e tortuose, traffico soffocante, automobilisti nervosi, tempo piovoso e radar in agguato; altro che libertà e vento in faccia! Eppure lo spirito è quello che alcuni film hanno celebrato: Easy Rider, del 1969 (era nato il mondo hippie) con gli indimenticabili Peter Fonda dietro un’infinita forcella, Dennis Hopper con giacca e cappello stile Buffalo Bill, un giovane Jack Nicholson, i loro chopper, il casco a stelle e strisce. O il più recente e autoironico Wild Hogs del 2007 con John Travolta, tradotto in italiano con un poco felice Svalvolati on the road; il film racconta le avventure motociclistiche di quattro borghesucci frustrati che decidono di fare un viaggio in cerca di avventure, in barba alla loro non più tenera età. Pellicole che da una parte hanno celebrato la marca americana, ma che anche grazie a questa presenza sono diventati a loro volta dei cult.
Un componente della famiglia
C’è chi acquista la moto dei suoi sogni anche per ragioni tecniche ed estetiche; poi magari comincia subito dopo a modificarne le caratteristiche esteriori: manubrio, scarichi, filtro dell’aria, luci, sella, pedane e manopole, scegliendo pezzi originali da un catalogo infinito di ricambi possibili (sempre che si abbiano i mezzi per soddisfare i propri sfizi). La moto per la vita, insomma, che se tutto va bene resterà per sempre in casa, affiancata al caso da nuove arrivate; non sarà mai sostituita, perché venderla sarebbe come separarsi da un familiare.
Una corrente di pensiero alternativa vede invece il proprietario di una H-D tenere l’originale così come è uscita dalla fabbrica di Milwaukee senza cambiare nemmeno una vite. Lo fanno anche gli appassionati di altre marche. I più estremisti arrivano al punto di non pulirla e ripararla per il resto dei suoi giorni, all’insegna del motto «più è concia più è bella»; solo olio, benzina e al massimo una batteria nuova, quanto serve per tenerla in vita. Fango e sporcizia sono come le rughe sul volto di una vecchia signora: non vanno cancellate, ma anzi testimoniano una vita vissuta. La tenuta di marcia del biker sarà sulla stessa onda, tra il trascurato e il minimalista.
E c’è quello che si identifica col suo veicolo, possibilmente il modello più recente e trendy, con sempre più pollici cubi di cilindrata; indossa casco del colore del serbatoio, tenuta di marcia all’ultima moda, scarpe da 400 franchi, jeans antisbucciatura da 700, gilet in pelle coperto di pins e sticker. Durante le soste per fumare una sigaretta, bandana in testa. Tragitti brevi e poco impegnativi con al massimo un’uscita extra stagionale, magari con partner, per passare una fine settimana in una località chic. Il contrario di coloro che di chilometri ne accumulano parecchi, anno dopo anno, un po’ per il piacere di guidare una motocicletta a prescindere dalla marca e dalla destinazione, ma anche per visitare Paesi, regioni, città e luoghi in modalità curiosa e lenta, con relative pause culturali e gastronomiche. Il tempo libero messo a frutto.
Qualche lettore arrivato fino a questo punto si starà chiedendo come mai non si sia ancora parlato di Hells Angels, Bandidos e bande simili di motociclisti ribelli, dediti a pestaggi e risse quando non di peggio, come raccontato in un film del lontano 1953, The Wild One (Il Selvaggio) con Marlon Brando, che cavalcava però una Triumph inglese. Veri machos a tutto tondo, almeno secondo un modo di pensare che si spera oggi sorpassato, anche un po’ patetici nella ricerca di una presunta e irresponsabile libertà dell’individuo nei confronti della società. Non ne parlo perché per loro la moto è solo un pretesto, non una vera passione.
Per farla breve: non è facile tracciare in poche righe l’identikit dell’harleysta tipo. C’è un ventaglio ampio e sfumato che si è ulteriormente complicato da qualche anno con l’allargarsi della clientela dovuto al benessere (più o meno reale) che ha trasformato la motocicletta in un bene di consumo aggiunto, un di più, un lusso che oggi ci si può permettere grazie anche al leasing. Nel solo 2023 sono state immatricolate in Svizzera quasi 50mila nuove motociclette, e così è stato negli ultimi anni con punte sopra i 50.
Giunti a questo punto smettiamo di scrivere, e ci trasformiamo anche noi in motard, montiamo in sella e partiamo per una gita tranquilla sui passi di casa nostra, traffico permettendo, accompagnati in cuffia da un brano cult tenuto a basso volume: Born to be wild degli Steppenwolf, tanto per restare nell’ambito del mito.