Ha 15 anni, dal Sudan è partito da solo 5 anni fa. A 10 anni il papà gli ha messo in mano i soldi che aveva per dare a quel bambino, così sveglio, che parlava già inglese, la possibilità di cercare un futuro in Europa. Lo chiameremo W. (nella foto qui di fianco). Lui, di quel papà che l’ha lasciato partire verso nord, parla con la gratitudine di un adulto. È una notte di fine maggio, W. corre sul ponte della nave Humanity 1 (della Ong tedesca Sos Humanity) piena di naufraghi appena issati da gommoni alla deriva al largo di Tripoli. Lui, che fino a poco tempo prima era destinato a morte certa, ora corre, fa lo slalom tra le coperte grigie in cui sono avvolti i maschi adulti a poppa. Non ha sonno. Vuole parlare.
«Mia madre è finita in un campo profughi, l’ultima volta che sono riuscito a parlarle dalla Libia è stato 4 anni fa», dice. «La voglio andare a prendere, la voglio ritrovare, c’è qualcuno in Europa che mi può aiutare a trovarla? Voglio lavorare, mandarle soldi perché possa comprarsi l’acqua sennò lì non può bere e poi andarla a salvare. Poi insieme a lei voglio tornare in Sudan, salvare i miei fratelli, cercare il mio papà e salvare anche il Sudan. Nel frattempo io voglio lavorare in una nave che salva le persone in mezzo al mare, posso farlo? Avete visto come so tradurre in arabo dall’inglese? Serve qui un interprete non è vero?». Non sono passati nemmeno due giorni da quando W. è stato tirato su, disidratato e fradicio di combustibile e acqua di mare, dai soccorritori della Ong tedesca e lui questo chiede. Vuole lavorare.
L’inglese l’ha salvato nei campi libici dove è finito due volte. «Non mi hanno ucciso perché gli servivo per tradurre. I libici prendevano i prigionieri e li torturavano, poi chiamavano col telefono del prigioniero la famiglia per fargli sentire le urla, ma non sanno l’inglese e non sapevano dire nulla. Quindi gli servivo, facevo da interprete tra l’arabo e l’inglese». Questo ha visto lui. «Mi hanno messo in prigione quando mi hanno trovato in mare su un gommone. Io la seconda volta sapevo già tutto, sapevo che dovevo stare molto attento a non impazzire perché se vedono che impazzisci o ti sparano in testa oppure ti portano nel deserto e lì muori di sete. Allora io quando sentivo che non sopportavo più chiudevo gli occhi e pensavo, pensavo, pensavo così mi ricordavo che sapevo pensare e non impazzivo».
W. appena salito a bordo della Humanity 1 non ha capito subito che era salvo. S’è proposto subito di tradurre dall’arabo all’inglese, e mentre studiava la situazione si è preoccupato di far vedere cosa sapeva fare. «Al mondo le persone sono tanto diverse. Vedi le dita di questa mano?», domanda. Apre la mano e la mette sotto la luce arancione della lampada riscaldante accesa a poppa. «Le persone sono tutte diverse come le dita della mano, i libici quando ci hanno preso in mare ci hanno imprigionato, menato, mi davano un dito d’acqua sporca e poi ci tiravano un piatto per tutti. Io che sono più piccolo non mangiavo quasi mai. Voi mi avete dato subito tanta acqua, tutto il tè nero con lo zucchero che voglio, mi fate da mangiare tre volte al giorno sui piatti puliti per tutti, mi avete dato questa tuta nuova, siete diversi». Provo a dire che quelli erano carcerieri e noi persone che lo hanno soccorso per aiutarlo. Mi interrompe: «Sì, io la differenza ora l’ho capita, ma che ne sapevo all’inizio chi eravate voi?».
Del Sudan non vuole raccontare. Si capisce soltanto che la sua famiglia non era poverissima, probabilmente borghese, che anche i suoi parlano altre lingue oltre l’arabo e che nella città dove viveva erano molto temuti degli uomini che non si potevano nemmeno nominare e allora lui e i suoi amici per riferirsi a loro, considerandoli forti, troppo forti, imbattibili, li chiamavano l’Arsenal, come la squadra di calcio. Seduto dietro W. c’è un ragazzo di 17 anni, non del Sudan, della Guinea. Fino a dieci giorni fa non sapeva cos’è il mare. Non l’aveva mai visto. Non sa cos’è l’Europa, non voleva nemmeno partire. Anche lui è solo. Non ha nessuno in Africa, non ha nessuno in Europa. L’unica persona che nomina è un ragazzino, anche lui minorenne, che stava accanto a lui nella barca alla deriva e che parla inglese.
Ci chiudiamo nella clinica di bordo: c’è lui con un asciugamano avvolto in testa che ogni tanto lascia scendere a coprirgli le lacrime e il suo amico con un tè caldo che nessuno berrà. I due ragazzi si siedono su una barella rigida al centro della stanza bianca, noi davanti a loro. Lui parla sempre a voce bassa, guarda solo gli occhi del ragazzino che traduce o le ciabatte ai suoi piedi. Solo alla fine, quando apriremo la porta di ferro per uscire sul ponte, alzerà gli occhi portandosi le mani sul cuore senza sorridere.
Morti i genitori in Guinea, sono rimasti lui, la sorellina e l’ultima nata di pochi mesi. Da soli. «Witches». Colpiti da una stregoneria, considerati tali perché orfani, perseguitati. L’unica via d’uscita era scappare. Scappano. Lui non sa quanti anni avesse, forse 6, forse meno, dice che nel cammino un ragazzo grande si innamora di sua sorella, si chiama Boubakar e parla bambara, è del Mali, le chiede di accompagnarlo in Libia, di andare lì insieme a vivere. Lei accetta, a condizione che vengano anche i fratelli. Boubakar dice di sì. Di quel lungo viaggio a piedi lui ricorda solo che la bambina piccola nel deserto è morta, che la sorella l’aveva in braccio, che non sapeva come allattarla. Lasciarla, «bisognava lasciarla e continuare a camminare».
La sua voce fa continue retromarce, moltiplica le pause, come se non volesse arrivare alla fine, come se avesse paura di arrivarci. Paura di sentirlo arrivare alla frase che uccide, ce ne saranno almeno dieci in un’ora di racconto, una discesa lenta in un dolore senza fine. Vengono presi e portati in un campo di ribelli in Algeria. Portano via la sorella, dall’altra parte del campo. Lui la sente strillare, la sente gridare aiuto. Boubakar e lui sono prigionieri. «He said he was a child, so young, too young», a ogni frase il suo amico che traduce premette sempre queste parole: «Lui dice che era troppo piccolo». Lui la sentiva strillare, la voleva aiutare, «non poteva difenderla perché lui era così piccolo».
Abbassa la testa, non vuole bere, non vuole fermarsi, vuole dire cos’è successo dopo. Racconta che rilasciano la sorella, che lei gli corre incontro, lui la vede e corre da lei «e quando l’abbraccia è pieno di sangue, non sa se è suo o della sorella, erano così piccoli». Li lasciano andare. Tutti e tre, lui, sua sorella e Boubakar. Lei muore. «Dice che non ci credeva che era morta, diceva che pensava che dormiva, ma gli occhi erano aperti». Lui e Boubakar arrivano insieme in Libia. Boubakar sa dipingere. Lavorano insieme come imbianchini. Dice che Boubakar lo portava con sé, lui gli stava accanto e gli apriva e chiudeva i barattoli della vernice. Quanti anni avevi quando sei arrivato in Libia? Lui non lo sa, forse 9, forse meno. «He grew up in Libya». È cresciuto lì. Con Boubakar che gli dava soldi da mettere da parte. Lui sapeva dove Boubakar nascondeva i suoi. Un giorno l’amico non torna. Lui aspetta, una notte, due notti. Chiede aiuto ad altri neri. Boubakar è stato preso ed è in carcere. Gli dicono quale. Chiede che qualcuno lo accompagni lì. Gli mostrano i fucili. Poi uno gli dice di portare soldi, che se li porta liberano il suo amico. Lui va a prenderli. Boubakar non tornerà mai. Gli dicono che è morto.
Lui non sa dove andare. Rimane dov’è. Passano mesi, continua a imbiancare pareti. I soldi che guadagna li fa custodire a un negoziante sotto casa. Parla con una voce sempre più bassa. Le parole escono con impeto, come se gli bruciassero dentro. «Il negoziante muore e il fratello di lui gli ruba tutti i risparmi. Quando glieli chiede indietro mostra una pistola e dice: sei nero, se me li richiedi ti ammazzo, vattene». Un libico che viveva lì accanto gli fa una proposta: vieni da me e mi finisci questo lavoro, se lo fai bene ti faccio un regalo. Lui va e gli imbianca tutte le pareti. Il libico una sera gli dice: domani parti per l’Europa. Lo porta di notte vicino a una spiaggia, lo lascia dentro lo stanzone con altri e se ne va. Quando li fanno uscire per imbarcarli sul gommone lui torna indietro, in fondo alla fila, ha paura del mare, non l’ha mai vista tanta acqua, non vuole andare. «S’è seduto in mezzo, è sempre stato a testa bassa per non guardare».
Quando in mezzo alle onde ha visto tutti piangere e gridare perché il motore era rotto dice che era sicuro di morire. «Poi quando è comparso un gommone e tutti dicevano “aiuto”, “la guardia libica”, lui ha sollevato gli gli occhi, ha visto quello grande con la grande barba e ha pensato che era Boubakar, che non era morto ed era venuto a prenderlo». Forse era Rocco Aiello, il capomissione della Humanity 1, in piedi sul gommone di salvataggio. È l’ultima sera prima dell’arrivo. Tutti stanno bevendo tè caldo, i ragazzini ballano. Lui no. È seduto su una panca, spalle al mare. Guarda serio, fa un cenno di saluto senza sorridere. È a ragazzi come lui che noi chiediamo di comportarsi nelle nostre città come ospiti discreti molto ben educati, di stanziarsi possibilmente lontano dalle nostre case, di parlare negli autobus solo a bassa voce. Per non disturbarci.