Il ponte di Cevio: un gigante con un piede d’argilla

L’attraversamento della Maggia a Cevio, e per esso l’accesso alla Valle Rovana, ha costituito per secoli un problema cruciale per la viabilità valmaggese, risolto solo nei primi decenni dell’Ottocento. Testimonianze storiche di ponti precedenti sono scarse e insicure riguardo all’ubicazione, alla natura (di legno o di pietra) e alla durata (spesso effimera) dei manufatti. In mancanza di strutture stabili, si raggiungeva il capoluogo a guado, o servendosi di un precario traghetto a fune sotto alla frazione del Boschetto, o ancora risalendo la sponda sinistra fino a Bignasco per poi ridiscendere sul lato opposto. Pure lacunose sono le notizie intorno al primo progetto di un ponte in vivo a Cevio, avviato nei primi anni Dieci del XIX secolo, e ne è finora incerto il progettista, con tutta probabilità da identificare in Francesco Antonio Meschini (1762-1840) di Piazzogna, all’epoca ingegnere cantonale responsabile, ideatore ed esecutore di molti lavori pubblici in ambito stradale, soprattutto nel Sopraceneri (fra le sue opere più famose si segnalano la strada della Tremola tra Airolo e il passo del San Gottardo e il primo ponte sulla Maggia ad Ascona, a più riprese distrutto dalle alluvioni).

Ne parrebbe far fede un «compromeso» stipulato il 27 maggio 1814 tra «jl lustrisimo Sig. Consigliere Meschini» e un consorzio di ceviesi per «jl trasporto de sassi ocorevoli per il ponte di Cevio ciove da pietra pietra». Sull’importante cantiere operarono i validissimi e rinomati mastri muratori e scalpellini di Cevio, fin dal Cinquecento attivi e apprezzati anche all’estero sui cantieri di Valtellina, Chiavenna, Piemonte, Francia, Germania e forse anche Toscana, Sicilia e Sardegna. I conci che compongono le pile del ponte, finemente lavorati alla punta, recano incise delle lettere maiuscole, forse le iniziali dei loro artefici.

Una storia travagliata

Le carte conservate presso l’Archivio di Stato mostrano come la storia del ponte fu fin dall’inizio assai travagliata: il 17 agosto 1818 la prima arcata, quasi giunta a compimento, crollò per il cedimento delle centine di armatura; l’incidente provocò una vittima e quattordici feriti, di cui quattro gravi, a soccorso dei quali fu invocata la beneficenza pubblica; nel dicembre dello stesso anno cadde (forse, come ipotizzato da un perito, per sabotaggio doloso) anche la centinatura della seconda arcata. Ultimato da pochi anni poi, il 27 agosto 1834 «lo strabocchevole torrente» originato da uno «strepitoso uragano», distrutto quello di Foroglio e reso «barcollante e precario» quello di Prato, rompeva anche il ponte di Cevio: già in quell’occasione a cedere fu il pilone sul lato di Visletto, unitamente alle due arcate che vi convergevano e alla spalla sinistra. Subito realizzato un ponte provvisorio di legno, l’immediato rifacimento fu affidato all’ingegner Domenico Fontana (omonimo dell’illustre predecessore ma di altro casato) – a Cevio negli stessi anni anche per l’erezione del grande riparo del Boschetto – che già a fine giugno del 1837 consegnava l’opera ricostruita.

Un’opera da Esposizione

Nel 1883 il Canton Ticino partecipò tramite il proprio Dipartimento delle pubbliche costruzioni alla prima Esposizione nazionale tenutasi a Zurigo, presentando alcune fra le più notevoli opere del genio civile realizzate sul suo territorio. Tra queste trovò menzione anche il ponte sulla Maggia a Cevio. Il rilievo di pianta e prospetto in scala 1:200 allora allestito mostra con dettagliata precisione tutte le componenti dell’impianto. Oltre alle più evidenti opere in elevazione (spalle, pile e arcate del ponte), il disegno evidenzia il minuzioso intervento di consolidamento del greto del fiume, allora realizzato su una vasta superficie a monte e a valle del ponte, finalizzato a difendere l’opera dall’azione erosiva delle acque.

Tale intervento fu attuato attraverso una serie di pali conficcati nel fondo ghiaioso e collegati da forti travi trasversali. La potente intelaiatura lignea venne poi tamponata tramite una selciatura di grossi scaglioni posati di coltello e collocati in posizione longitudinale in modo da opporre la minore resistenza alla corrente; su alcune di queste pietre sono ancora visibili i segni delle cugnere, intagli praticati tramite subbia e mazzuolo nei grossi blocchi di pietra, entro i quali venivano inseriti dei cunei di legno poi innaffiati in modo che, gonfiandosi, ne provocavano lo spacco. Ancorato al fondo dalla fitta palificata, imbrigliato dal reticolo di travi e perfettamente connesso nei suoi elementi lapidei, il rizzadone (sistema di contenimento dell’erosione) così formato costituiva un sottofondo di grande compattezza e solidità.

La prima ricostruzione

Resi attenti dall’esperienza maturata col primo crollo, fu proprio in occasione della ricostruzione che si prese a concentrare la massima attenzione all’accurata messa in opera della struttura di fondazione, da allora riconosciuta come la più esposta e cruciale dell’intero complesso.

Il capitolato d’opera allestito il 16 gennaio 1836 appare molto chiaro in proposito: «Per assicurare maggiormente il ponte si farà una palificazione in triplice file di robuste colonne di legno rovere del diametro in punta di metri 0.30, e lunghe cadauna metri tre e armate con robuste punte di ferro a quattro orecchie e saranno cacciate sotto terra col martino a vento fino al livello delle acque magre; […] di poi vi si metteranno tre grosse bride di legno rovere al lungo delle tre file, con no. 22 tiranti di simil legno al traverso, che il tutto sarà assicurato alle colonne con grosse e sufficienti caviglie di ferro. Le dette colonne saranno piantate nella sola distanza di metri 0.30 l’una dall’altra, fra mezzo poi alle tre file delle medesime si metteranno dei grossi macigni disposti più che sarà possibile in coltello bene serati fra mezzo alle colonne e briglie, che dipenderà moltissimo la durata del ponte, per conseguenza una tale operazione non sarà mai abbastanza raccomandata»: una lezione forse troppo presto dimenticata.

Piene, catastrofi e deviazioni

Durante tutto l’Ottocento il ponte subì l’offesa di numerose piene straordinarie, rese più frequenti e devastanti (queste sì catastrofi naturali provocate dall’azione dell’uomo) dal capillare disboscamento dei fianchi montani e dalla scriteriata pratica della flottazione del legname. Riparazioni puntuali furono quindi necessarie e urgenti a cadenza quasi annuale, sempre volte a ricucire e rinforzare la possente platea di fondazione. Anche se ripetutamente danneggiato, fintanto che si è ben manutenuto il vecchio rizzadone, questo si è dimostrato egregiamente efficace per quasi due secoli, superando anche la severa prova del 1978.

In occasione di un recente intervento di riparazione della spalla destra del ponte e dell’argine che la precede, tuttavia, la necessità di deviare provvisoriamente il corso del fiume per poter eseguire i lavori ha comportato lo scavo di un canale nella parte sinistra dell’alveo e lo sradicamento di parte della struttura originale; al suo posto, al termine dei lavori, il greto è stato ricolmato con una massicciata di grossi blocchi.

Pur riconoscendo che al verificarsi dell’evento rovinoso possa aver contribuito anche l’azione dei tre pennelli posti a difesa del fianco destro del ponte, i quali deviando la corrente ne hanno concentrato la potenza distruttrice sul lato opposto, non si può escludere che il punto debole dell’intero impianto, il vero tallone d’Achille del ponte, sia da ricercare nella pavimentazione del greto del fiume realizzata a conclusione dei recenti lavori.

Stando alla documentazione fotografica, il pilastro non sembra essere crollato sotto la spinta frontale della corrente ma in seguito all’erosione del suo supporto basale. Il fatto poi che il ponte si sia fratturato sopra l’altro pilone e che l’arcata sia rimasta sostanzialmente intatta, potrebbe indicare che il cedimento non sia avvenuto repentinamente ma nel corso di un processo graduale. In ogni caso è giusto chiedersi come mai a soli due anni dalla loro messa in opera, alla prima forte sollecitazione i blocchi, ancorché voluminosi e pesanti, non hanno resistito alla furia dell’acqua; una volta scalzati, questa non ha più trovato ostacoli nello scavare alla base del pilone, facendolo sprofondare.

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