Molti svizzero-italiani, almeno un paio di generazioni, ricordano ancora il viaggio che, sessant’anni fa, nella primavera-estate del 1964, li condusse all’Expo di Losanna, nell’area lacustre di Vidy. Era la quinta esposizione nazionale, di una serie iniziata nel secolo precedente, nel 1883 a Zurigo. Com’era consuetudine, l’iniziativa si proponeva di magnificare le conquiste della scienza e della tecnica, l’artigianato e l’industria, senza tuttavia dimenticare le tradizioni avite e i tratti che contraddistinguevano il paesaggio elvetico. C’erano la monorotaia e la teleferica; purtroppo, per ragioni di sicurezza, non era stato possibile mettere in acqua una delle attrazioni principali, il «mesoscafo» ideato dai Piccard, padre e figlio. Gli organizzatori avevano nominato architetto-capo il ticinese Alberto Camenzind, poi divenuto professore al Politecnico federale. Si era in piena guerra fredda. Anzi, in una fase acuta del confronto Usa-Urss, dopo che nel 1962 le due super-potenze nucleari si erano ritrovate faccia a faccia nei mari intorno all’isola di Cuba. Allora, sul piano economico, la Svizzera stava attraversando un periodo di surriscaldamento («surchauffe»), con una parallela, forte crescita dell’immigrazione, soprattutto italiana. Un’ondata di indignazione si era riversata anche sul Dipartimento militare, che nella politica di armamento credeva di avere le mani libere. La decisione di acquistare dalla Francia un centinaio di cacciabombardieri Mirage senza informare adeguatamente il Parlamento fu all’origine di una lunga controversia che coinvolse anche lo Stato maggiore dell’esercito e alla fine lo stesso responsabile del Dipartimento Paul Chaudet. Ad alimentare il clima di tensione e di sfiducia reciproca contribuivano anche le ricorrenti rivendicazioni della minoranza giurassiana nel Canton Berna.
L’Expo del 1964 si voleva pacificatrice e «summa» delle differenze regionali, sotto il benevolo sguardo del collegio governativo centrale, presieduto, per quell’anno, dal democratico cristiano Ludwig von Moos. Provvedeva a rassicurare famiglie e scolaresche il padiglione dell’esercito, una costruzione aculeata, analoga a quella di un porcospino: un ridotto simbolo di volontà di difesa. Una presenza, quella delle forze armate, che allora impregnava larghi strati della società civile, dall’economia alla politica passando per l’organizzazione del tempo libero (società di ginnastica, di tiro, di canto) e le opportunità di carriera nelle grandi aziende e nelle banche. Sennonché, dietro le quinte, iniziava ad affiorare un certo scontento per un Paese che si stava calcificando in una sorta di aurea mediocritas. Di questo sottile malaise si fece interprete il giurista Max Imboden che riteneva ormai urgente e improcrastinabile una riforma totale della Costituzione. Critiche severe giunsero anche da alcuni intellettuali basilesi non allineati, secondo i quali l’Expo dava di sé un’immagine ingannevole, che non coglieva i fermenti che pur stavano agitando i movimenti giovanili, i partiti e i sindacati: «L’esposizione di Losanna – osservarono in Trugbild der Schweiz – restituisce un’immagine della Svizzera che è sostanzialmente co-determinata dal Governo federale e dalla sua amministrazione».
Pure un’originale iniziativa, per quei tempi, come l’inchiesta Gulliver mirante a saggiare gli umori, i valori e gli orientamenti dei visitatori non incontrò il favore delle autorità, che preferì il manzoniano «troncare sopire» piuttosto che proporla alla libera discussione pubblica (in proposito si parlò di censura). Vero è che alcuni passaggi toccavano nervi scoperti, domande come: «A suo parere, quali sono i vantaggi del servizio militare e quali gli inconvenienti?»; «Perché le donne sono peggio pagate degli uomini?»; «A suo giudizio, perché lo svizzero sembra essere contrario al suffragio femminile? E personalmente, lei è favorevole o contrario?»; «Quale ruolo gioca la religione nella sua esistenza?». I risultati del sondaggio d’opinione furono ripresi due anni dopo, nel 1966, da un giovane sociologo francese, Luc Boltanski, che li utilizzò per redigere un saggio sui mutamenti in corso nella stratificazione sociale: contadini, impiegati, operai, il mondo della scienza. Le bonheur suisse (la felicità del titolo rimandava ad un’espressione coniata dagli illuministi francesi) apriva così una finestra sociologica su dinamiche e tendenze fino a quel momento volutamente ignorate o lasciate nell’ombra.